Il nuovo libro di Paolo Morando – ’80. L’inizio della barbarie, Laterza, pp. 242, euro 16 – è una preziosa ricostruzione archeologica del decennio che, dopo la parentesi della politicizzazione della vita sociale, ha impresso una sterzata decisa al modus vivendi degli italiani accentuando il distacco dalle «grandi riflessioni», dall’idea di un’azione condivisa e da qualunque impresa collettiva. Si è entrati mani e piedi in una specie di Schlaraffenland, il Paese della Cuccagna di Brügel, in cui tutti i desideri minuti sarebbero stati soddisfatti, mettendo alla porta i pensieri, le preoccupazioni, lo spirito critico così faticoso, così ostico.

Descrivendo le varie incarnazioni di questo nuovo corso, dall’Italia «nordista» a quella «paninara», da quella «becera» a quella «rampante» e a quella «razzista», attingendo da uno sterminato repertorio giornalistico con cui si è confrontato certosinamente per sei anni, Morando ci fa toccare con mano in un tripudio di dettagli ora divertenti ora raccapriccianti l’abbruttimento di un Paese che sembra aver gettato alle ortiche qualunque senso etico e che, ciascuno per sé, si è concentrato esclusivamente sui piaceri individuali.

Il volume permette due «re-visioni» del recente passato: la prima riguarda la situazione specifica dell’Italia e degli italiani, l’altra coinvolge l’Europa e l’intero Occidente. Dopo Craxi, la «Milano da bere» e il ventennio berlusconiano, l’elezione di Pisapia a sindaco di Milano indusse due giornalisti italiani di vaglia, Michele Serra e Massimo Gramellini, l’uno indipendentemente dall’altro in assoluta contemporanea, ad affermare che un periodo inglorioso si era concluso. Come se l’anomalia fosse consistita nella deriva narcisistica e cinica della fase avviata con gli anni Ottanta. Ma è andata sul serio così?

L’egemonia sottoculturale così brillantemente descritta da Massimiliano Panarari nel suo libro dal titolo omonimo del 2010 che recava come sottotitolo L’Italia da Gramsci al gossip, ovvero gli ultimi trent’anni di storia italiana, è un’anomalia, una svisatura oppure la eccezione risiede negli anni che quegli Ottanta hanno preceduto?
Roberta Monticelli nelle prime cento pagine de La questione morale descrive alcune caratteristiche degli italiani che si sono mantenute nel tempo da Guicciardini a oggi: dal culto del «particulare» e della assidua ricerca di un qualche potente, di un qualche protettore che garantisse con la sua benevolenza ottenuta in cambio della propria servitù quel posticino tranquillo, quella serie anche circoscritta di agi e piaceri a cui nessuno intendeva rinunciare, alle sconsolate parole di Giacono Leopardi nello Zibaldone che faticava a sopportare la miseria morale e la sistematica prostituzione dei suoi connazionali, fino all’identificazione con Mussolini, il padre forte e rassicurante che indusse la quasi totalità degli italiani a proclamarsi fascista (salvo defascistizzarsi in tutta fretta all’indomani della disfatta militare e del cambio di regime con il medesimo intento: un angolino riparato in cui poter badare ai casi propri e, se non è chiedere troppo, trafficare un po’ per migliorare la propria posizione). Questo, per quanto riguarda nello specifico il nostro Paese.

Allargando lo sguardo, la «barbarie» di cui parla con divertita e avvertita ironia Paolo Morando dipende dalla mutazione genetica che ha subito il costrutto di «cultura». Zygmunt Bauman lo ha ricordato in più occasioni, fotografando il passaggio dall’essere «univori», ovvero selettivi, all’attuale propensione a essere «onnivori», la categoria così caratteristica del nostro nuovo «decisore» Matteo Renzi. Qualche decennio fa Pierre Bourdieu descriveva i «tesori» della cultura come appannaggio degli «eletti», di coloro che potevano occuparsi della bellezza ed erano gli unici detentori dei suoi significati visto che erano loro a decretare dove si trovasse la bellezza, che cosa fosse, giacché erano loro stessi che l’avevano inventata, identificata, motivata, santificata.

Ma già molto tempo prima di Bourdieu, che ne tratteggiava gli strascichi, con la nietzschiana «morte di Dio» le decisioni, anche riguardo a ciò che merita di essere celebrato, erano diventate appannaggio di ciascun essere umano liberato dalla trascendenza o condannato a sorreggere sulle spalle la croce della propria libertà di essere gettato nel mondo. E Bourdieu ha potuto commentare il travaso del lessico della cultura dalle regole alle tentazioni, dalle norme alle seduzioni, in un vertiginoso cibreo di permanente rinnovamento dove, come l’Angelo della Storia del disegno di Paul Klee descritto da Benjamin, tutti guardano con ribrezzo al passato, terrorizzati però nel dover rivolgere lo sguardo a un futuro dall’orizzonte piombato. Dalle monosfere delle religioni monoteistiche e dai totalitarismi che di nuovo si affacciano con Daesh alle «schiume» descritte dal filosofo tedesco Peter Sloterdijk su cui dobbiamo imparare nostro malgrado a saettare, forse gli occidentali dovrebbero fischiettare un po’ meno e ricominciare a pensare un po’ di più.