Il modo più semplice per scendere alla Sanità è prendere l’ascensore. Dal ponte fatto costruire da Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat agli inizi dell’800 per consentire ai regnanti francesi di raggiungere la reggia di Capodimonte senza ritrovarsi assediato dal popolino lazzaro, oggi intitolato alla partigiana Maddalena Cerasuolo che durante le Quattro giornate di Napoli riuscì a impedire che i nazisti lo facessero saltare, si gode una vista invidiabile sui palazzi seicenteschi in decadenza e sulla cupola maiolicata in ceramica giallo-verde di Vietri della chiesa consacrata a Santa Maria della Sanità ma da tutti attribuita al “monacone” San Vincenzo Ferrer, santo d’importazione spagnola. È l’unico caso al mondo in cui la metafora dell’ascensore sociale si materializza nella sua fisicità: dai piani alti dove la classe media napoletana si estranea dalla plebe si scende nelle sue viscere, ribollenti di vita come in un qualsiasi organismo umano. Proseguendo la discesa agli inferi, la luce lascia il posto al buio e il rumore al silenzio. Gli abitanti della Sanità sono seduti su un antico cimitero di anime sante e vittime di peste o carestie, come in quel quartiere poverissimo del Cairo in cui la morte serve a dar rifugio alla vita.

L’ascensore funziona dalle 7 alle 21,30. Poi il rione rimane isolato, come lo avevano voluto i francesi e in seguito i napoletani dei quartieri confinanti, che hanno provveduto a murare le strade d’accesso. È allora che diventa territorio di scorribande di giovani e giovanissimi in motorino: in due, in tre, in quattro, senza casco o tenendolo poggiato sulle spalle in segno di irrisione alle regole del vivere civile, in centinaia sfrecciano chiassosi in su e in giù come pesci impazziti in un acquario dal quale non possono e non vogliono uscire. «Qui il sogno delle ragazze è diventare “veline” in tv e i ragazzi pensano solo al motorino e alla droga», afferma sconsolato padre Alex Zanotelli, missionario comboniano che ha preferito il “terzo mondo interno” della Sanità a quello africano della baraccopoli di Korogocho, in Kenya, dove ha vissuto per oltre un decennio. È la logica del ghetto: nessuno esce dal suo territorio perché al di là si sentirebbe fuor d’acqua. Sarà per questo che buona parte dei ragazzi di questa énclave di 67 mila abitanti incastonata nel cuore della città, a un passo dal salotto buono di piazza Plebiscito, non ha mai visto il mare.
«Quanti incidenti accadono qui ogni giorno?» si chiede stupita una coppia di islandesi capitata chissà come al bed and breakfast del Monacone, annesso alla basilica e gestito da una cooperativa di ragazzi del quartiere. «Pochissimi», risponde sorridendo uno di loro, senza riuscire a trovare le parole per far comprendere il codice non scritto del caos organizzato che qui tutti rispettano. La Sanità, dice lo scrittore Ermanno Rea, è una «Napoli al quadrato», dove ogni aspetto della napoletanità è amplificato e rimbomba tra i vicoli come la voce di un attore in una cavea. L’aspetto peggiore sono i morti ammazzati per strada, il modello socio-economico camorrista considerato l’unico possibile, la disgregazione sociale appena mitigata dall’unica appartenenza comune: il tifo sfegatato, quasi una religione, per la squadra di calcio del Napoli. Il bed and breakfast del Monacone è invece uno dei fiori all’occhiello dell’altra Sanità. Ricavato nell’ex dormitorio della chiesa, a un fianco della cupola maiolicata e delle altre dodici cupolette che circondano questo tesoro nascosto del barocco partenopeo, esso è figlio del genio visionario di don Antonio Loffredo, un parroco che ha saputo riscoprire i tesori del quartiere e, con il piglio di un imprenditore votato al benessere sociale piuttosto che al profitto, ha saputo vincere la sfida più difficile: affidarli ai ragazzi del quartiere e far sì che siano loro a valorizzarli e prendersene cura.
Nando è uno di questi. Ha 23 anni, un fisico asciutto, quasi esile, ed è l’«amministratore delegato» della cooperativa che gestisce anche le visite alle catacombe. Indossa una t-shirt rossa con un numero 1 impresso sul didietro e la scritta «portieri si nasce». «Alla Sanità siamo come topi in trappola», commenta con un sorriso amaro la chiusura del quartiere verso l’esterno. Però loro il muro della reciproca diffidenza stanno provando ad abbatterlo. Non è facile, perché si tratta di demolire i pregiudizi della «Napoli bene» verso questa parte di città non pacificata e contemporaneamente quelli dei suoi abitanti nei confronti di chi non è del quartiere. Una volta crollato questo cadranno anche quelli fisici. «La chiusura di un luogo si riflette fatalmente sulla mentalità dei suoi abitanti. Quando un estraneo entra in questo Rione, la gente si fa guardinga, sospettosa. Sa per esperienza che invariabilmente, prima o poi, si verificherà un saccheggio e lo anticipa paventandolo», scrive padre Loffredo in un libro appena pubblicato per Mondadori, Noi del Rione Sanità, in cui racconta la sua scommessa e quella dei ragazzi che lo hanno seguito. Padre Loffredo è convinto che sia possibile riuscirci in un solo modo: togliendo ai camorristi i loro figli e creando un modello socio-economico alternativo a quello fondato sull’illegalità.
Pian piano, l’utopia si sta trasformando in realtà. Ma la strada da percorrere è ancora molta. Adele Pizzillo è una ragazza della Sanità, dai tratti mediterranei. Ha studiato Archeologia all’università, ha imparato il francese a Grenoble e l’inglese a Malta. Ora insegna ai turisti a non aver paura della gente del quartiere e li traghetta, novella Caronte, nei labirinti del sottosuolo. Il suo compito, oggi, è di far vedere quello che ancora non c’è. Di mostrare un sogno non ancora realizzato. Per provare a interpretarlo, è necessario arrivare in cima alla valle della Sanità ed entrare in una delle grotte di tufo che punteggiano la montagna. Fior di sociologi e intellettuali hanno ripreso la metafora benjaminiana della «città porosa», a volte dimenticando che il filosofo tedesco partiva dall’assunto che la natura vulcanica del terreno su cui Napoli è costruita la rendono davvero simile a una gigantesca spugna. E ciò ne ha influenzato in maniera decisiva l’architettura e di conseguenza le abitudini dei suoi abitanti. Questi pori su cui poggia la città sono oggi diventati parcheggi per auto, molti sono abbandonati, e su quel che si trova in quelle gallerie si rincorrono voci e leggende: una vecchia 500 truccata capace di raggiungere i 200 km/h, un camioncino su cui è montato il motore di un aereo. Motorini sequestrati e slot machine. Nel nostro piccolo, ci imbattiamo in una barca e una Topolino d’antan.
Il progetto che la giovane guida ha il compito di illustrare è quello di realizzare in queste gigantesche cavità – una di 20 mila metri quadri, un’altra di 40 mila – una sorta di Centre Pompidou napoletano. È necessario chiudere gli occhi e far volare l’immaginazione mentre Adele Pizzillo parla di biblioteche, teatri, cinema, mostre d’arte. Napoli ha bisogno di visionari «al quadrato» per provare a rinascere. Ermanno Rea, che si considera cittadino di questo quartiere prima ancora che napoletano, osserva soddisfatto, ad occhi aperti, il Beaubourg della Sanità.
Passeggiando all’ombra del ponte intitolato alla partigiana Maddalena Cerasuolo, dove non crescono più gli aranci e i limoni descritti da Pompeo Sarnelli nella secentesca Nuova guida de’ forestieri, si rimane sorpresi dall’umanità che abita l’al di sotto della città. Messa a confronto con Scampia, altro ghetto cittadino, la Sanità appare il suo opposto: silenziosa e deserta, priva d’identità e pienamente dentro la modernità capitalistica la prima – la «schiuma nera della modernità napoletana» per Rea, un quartiere da radere al suolo «per permettere di ricostruire una comunità» secondo Zanotelli; chiassosa e sopra le righe quest’ultima, cementata da un senso d’appartenenza che gli deriva dalla sua storia, l’habitus mentale dei suoi cittadini scalfito solo in superficie dalla modernità. Qui sono nati il principe Antonio de Curtis, in arte Totò, il regista cinematografico Pasquale Squitieri e l’attore Gigi Reder, il “ragionier Filini” partner di Paolo Villaggio nella fortunata serie Fantozzi. Eduardo de Filippo, genio incontrastato del teatro partenopeo del ‘900, vi ambientò una delle sue commedie più famose: Il sindaco del Rione Sanità. Vittorio de Sica girò qui una delle scene indimenticabili di Ieri oggi e domani: una Sophia Loren col pancione percorre al contrario la Salita Cinesi, così detta perché nel XVIII secolo il missionario Matteo Ripa, fondatore dell’Università L’Orientale, tornando dalla Cina vi aveva fatto costruire una scuola per i giovani che lo avevano seguito da Pechino. Salvatore di Giacomo fu ispirato dal codice d’onore che vigeva nei suoi vicoli quando scrisse Lo sfregio, storia di una donna che protegge il suo protettore-fidanzato camorrista che l’ha sfregiata con una rasoiata: «Ha tagliata la faccia a Peppenella/ Gennariello de la Sanità;/ che rasulata! Mo la puverella/ mo proprio è stata a farse mmedecà./ Pò ll’hanno misa ‘int’ a na carruzzella,/ è ghiuta a ll’Ispezzione a dichiarà,/ e ‘o delicato, don Ciccio Pacella,/ll’ha ditto: -Iammo! Dì la verità./ Ch’è stato, nu rasulo, nu curtiello?/ Giura primma, llà sta nu crucefisso/ (e s’ha tuccato mpont’a lu cappiello)./ Dì, nun t’ammenacciava spisso spisso?/ Chi? – rispuost’essa – Chi? Gennariello!/ No!… V’o giuro, signò! Nun è stat’isso!»
Vincenzo Pirozzi prova a rimanere nel solco di siffatta tradizione, sfruttando la capacità «porosa» della cultura napoletana di tramandare la lezione dei «maestri» e di assorbire le nuove culture rielaborando il tutto in modi ogni volta inaspettati. Avrebbe potuto seguire la sorte di suo padre, braccio destro del boss Giuseppe Misso – personaggio legato all’estrema destra, coinvolto e poi assolto nell’inchiesta sulla strage del 1984 sul treno Napoli-Milano, un nipote cui è stato dato il nome di un rivoluzionario: Emiliano Zapata. Invece è uno di quei figli tolti alla malavita di cui parla padre Antonio Loffredo. Ha imboccato la strada della recitazione, un’arte nelle corde di tutti in un quartiere in cui la rappresentazione e la messinscena fanno parte del teatro della vita, inverando ogni giorno le parole dello scrittore francese François Mauriac: «Ogni dramma inventato riflette un dramma che non s’inventa».
Pirozzi è riuscito a far ridere dei vizi e delle debolezze dei camorristi con una commedia, Sodoma, che vuole essere il rovescio della Gomorra di Roberto Saviano. Sodoma è stato presentato al Tribeca film festival e ha pure vinto un premio. La locandina è in bella mostra all’ingresso del Teatro Nuovo Sanità, appena inaugurato dall’associazione Sott’o ponte in una chiesa ottocentesca sconsacrata nel cui sottosuolo sono sepolti preti e suore di un vicino monastero. Il collettivo si è autotassato per mettere in piedi questa «casa comune» per gli artisti. «Negli occhi di molti il Rione Sanità è identificato con quel filmato che ha fatto il giro del mondo in cui un pregiudicato veniva ucciso fuori da un bar. Ma questo luogo è anche altro ed è da questo che vogliamo partire. In particolare, il teatro a Napoli deve ritornare ad essere l’identità di un popolo», si legge sul sito del Nts – l’acronimo del Nuovo Teatro Sanità. Dove un tempo c’era il pulpito, oggi c’è il palcoscenico che ha ospitato, alla fine di giugno, la prima opera autoprodotta, parto della fantasia creativa del direttore artistico Mario Gelardi: Il meraviglioso circo dei fratelli Baldoni. Nella navata sono state montate poltrone rosse per cento posti a sedere. La struttura ospita anche un laboratorio di teatro, cinematografia, mimo e dizione, un doposcuola, una palestra e una scuola di danza.
«A otto anni ho visto C’era una volta in America di Sergio Leone e mi sono innamorato del cinema», dice Pirozzi, che oggi di anni ne ha 35 e ha maturato una notevole esperienza artistica: una parte nel film Pianese Nunzio 14 anni a maggio di Antonio Capuano, gli studi al Centro sperimentale di cinematografia con Lina Wertmüller, la soap opera partenopea Un posto al sole, la guardia del corpo di un boss nella fiction Il coraggio di Angela – con contorno di polemiche legate all’ingombrante figura paterna, alle quali non vuole più neppure replicare. Poi, «una sera di dieci anni fa, a cena con don Antonio, gli ho espresso il mio desiderio di fare qualcosa nel mio quartiere, dicendogli che mancava lo spazio. Lui ha riaperto questa chiesa, che era chiusa da quindici anni, c’erano ancora le panche di legno». I ragazzi dell’associazione l’hanno ristrutturata e intitolata a una ragazza del rione morta in un incidente ferroviario in Cina, Sissi Liguori, coronando il sogno di ridare un teatro a un quartiere in cui la disgregazione sociale e l’individualismo dell’ultimo trentennio hanno disabituato le persone a riti collettivi – come quello teatrale – che pure facevano parte del loro dna. «Molti giovani fanno ancora fatica a capire che attraverso il teatro possono riscattarsi», dice Pirozzi. Nonostante tutto, aggiunge, «siamo riusciti a tirar fuori molti dalla strada». La strada, pasoliniana palestra di vita e di malavita in un quartiere di appena sette chilometri quadrati e una densità abitativa tra le più alte d’Europa. Dove il 30 per cento degli adolescenti ancora oggi abbandonano la scuola prima dei 14 anni.

Nei vicoli del centro storico e tra gli stradoni della sterminata periferia urbana il termine camorra è ormai desueto. A gestire l’economia illegale è «‘o Sistema», un termine che indica un’entità che il singolo individuo non può afferrare e pertanto è inutile combattere. Non rimane che adeguarvicisi. Nei vicoli della Sanità, «el Sistema» è invece un modo di suonare preso in prestito da un musicista venezuelano ma che affonda le radici nel rapporto intenso che è sempre intercorso, alle falde del Vesuvio, tra le classi popolari e la musica. Fin dal XIV secolo agli orfani e ai trovatelli «conservati» negli asili di pubblica pietà veniva insegnata l’arte delle sette note, e nel tempo i «conservatori» modificarono la loro funzione, trasformandosi in università. Nel ‘700 ne esistevano cinque, tanto che il magistrato e filosofo Charles de Brosses, conte di Tournay, arrivò a definire Napoli «capitale mondiale della musica». Oggi a dettare il ritmo della Sanità sono i cantanti neomelodici, con i loro testi che parlano d’amore e di galera, di strada e d’evasione. Vincenzo Pirozzi ne ha scritti diversi prima di approdare al teatro e al cinema. Sostiene che anch’essi soffrono la crisi: la gente ha meno soldi e non può permettersi i matrimoni di una volta, anche le feste popolari hanno budget ridotti, dopo le vecchie musicassette anche i compact disc abusivi non si vendono più e il settore non tira come prima.
«Mi piacciono Pino Daniele e i Pink Floyd». E Beethoven? «Beethoven lo suono». Così Raffaele Marfella ha zittito in diretta tv Raffaella Carrà che gli chiedeva dei suoi gusti musicali, immaginando che uno «scugnizzo» non ascoltasse musica classica. Raffaele è uno dei componenti del Sanitansamble, un’orchestra da camera formata da 47 elementi: sette violini primi, sette violini secondi, sei viole, cinque violoncelli, quattro contrabbassi, tre flauti traversi, tre clarinetti, tre oboi, tre trombe, tre corni francesi, tre percussioni. I musicisti hanno dai 9 ai 19 anni, e a guidarli sono tredici maestri, un direttore d’orchestra e un direttore artistico che poggiano le loro basi su un progetto del maestro venezuelano José Antonio Abreu. Si tratta di un metodo studiato per coinvolgere i giovani dei quartieri più poveri e sottrarli alla criminalità: l’obiettivo è quello di educare alla musica e contemporaneamente di offrire loro una possibilità di riscatto, prevenendo comportamenti asociali e criminali. Il risultato è entusiasmante: nessuno dei componenti del Sanitansamble ha abbandonato gli studi e la loro musica sta ormai abbattendo i muri che cingono il quartiere. Come un tempo accadeva per la cosiddetta «lava dei vergini», i fiumi di acqua e tufo disciolto che scendevano a valle durante le alluvioni sommergendo le abitazioni, il Sanitansamble sta rompendo gli argini ed esondando, metaforicamente, ben oltre il mastodontico cavalcavia dal quale l’altra Napoli guarda dall’alto in basso il quartiere. Mostrando che la Sanità non è altro che lo specchio rovesciato dell’intera città, dove essa può guardare in faccia le sue paure, la sua debolezza, la sua arroganza.