Alla fine la batosta annunciata c’è stata e l’America si è svegliata con una maggioranza d’opposizione, la più grande dai tempi di Truman. Non solo il Gop ha rafforzato l’ampia maggioranza di cui godeva alla camera già da quattro anni e conquistato il senato per 53-46 seggi (potrebbero diventare 54 dopo il ballottaggio della Louisiana che avverrà a dicembre) ma lo ha fatto vincendo decisamente in stati «obamiani» come il Colorado , l’Iowa e il North Carolina.

Al controllo del senato i repubblicani hanno aggiunto una valanga di governatori – 24 su 36 compresi quelli di tradizionali roccaforti democratiche come il Maine, Maryland e Massachisetts e addirittura l’Illnois – lo stato di Obama. E l’onda repubblicana ha compreso esponenti della destra estremista come Joni Ernst la famigerata «castratrice di maiali» (come si era presentata in un celebre spot elettorale), una reduce della guerra Iraq che di Obama ha reclamato l’impeachment e Scott Walker il falco del tea party, architetto dello smantellamento dei sindacati nell’ex roccaforte labor del Wisconsin, un beniamino degli arciconservatori finanzieri Koch. I timidi tentativi di contrattacco democratico sono miseramente falliti come la candidatura di Wendy Davis, paladina dei diritti delle donne e giovane speranza del partito, spazzata via nel Texas profondamente «rosso» (il colore assegnato ai repubblicani sulle mappe elettorali americane). La supremazia dei repubblicani al congresso, più di 70 seggi di vantaggio, rappresenta un cambiamento epocale rispetto all’inizio dell’era Obama, quando i democratici controllavano camera, senato e Casa bianca. Nettamente insomma oltre quello che ci si aspettava da un elezione in cui i democratici erano fortemente sfavoriti ma speravano di poter arginare il peggio.

Non è stato così in parte per lo sforzo coordinato dei repubblicani e la fondamentale efficacia di una campagna basata sull’allarmismo progettata per cooptare paure e frustrazioni di un elettorato pessimista in cui sono stati arruolati e ingigantiti perfino l’ebola e terrorismo come simboli dell’«inefficienza» di Obama. I repubblicani, favoriti dal fatto che la maggior parte dei seggi in palio erano in stati tradizionalmente conservatori, hanno eroso il vantaggio dei democratici con le elettrici e mobilitato grandi maggioranze di uomini bianchi rispetto alle minoranze che sono la base democratica. È vero che si è proabilmente trattato di un voto di protesta dovuto a un generale riflesso di insofferenza più che di un plebiscito ideologico; in quattro stati infatti, sono anche passate misure progressiste per l’aumento del minimo sindacale mentre Oregon e Washington DC hanno depenalizzato la marijuana.

Questo non cambia la sostanza di un panorama politico radicalmente differente che per Obama pone ora con urgenza il problema di come governare nei prossimi due anni. Se prima poteva esserci il dubbio, da ieri Obama è ufficialmente un’«anatra zoppa». Il nuovo assetto di Washington rischia di tramutarsi in un muro contro muro ad oltranza imposto dall’ala intransigente della nuova maggioranza e l’ostruzionismo è già di fatto stato stata la principale strategia politica dei repubblicani. La camera controllata dal Gop ad esempio negli ultimi due anni ha votato ben 55 volte per abrogare la legge sulla pubblica sanità varata da Obama, voti simbolici invalidati dal senato democratico.

Il principale movente dei repubblicani ora è di sabotare il governo Obama e con lui le prospettive democratiche nelle prossime elezioni presidenziali del 2016. Un banco di prova della nuova acrimonia ci sarà già prima della fine dell’anno quando occorrerà approvare il bilancio, il voto che già l’anno scorso provocò lo «shutdown» la serrata del governo a causa del boicottaggio repubblicano. I repubblicani hanno ora il potere di bloccare le nomine giudiziarie di Obama, fondamentali per influenzare la direzione politica del paese sul lungo termine e quelle ministeriali; infine avranno il potere di controllare le commissioni che gestiscono i budget e la spesa. Si restringono invece le prospettive di Obama per completare la propria agenda: riforma dell’immigrazione, progresso sul mutamento climatico e soprattutto misure contro l’ineguaglianza economica la vera bomba a orologeria socioeconomica del presente. Per lui a questo punto, oltre al potere di veto, rimane poco più che l’azione mediante decreto esecutivo.

Una situazione che si replicherà in campo internazionale. La politica estera non è stata un argomento centrale della campagna elettorale, ma i sondaggi indicavano che appena il 34% degli americani approva della politica estera di Obama, il 38% del suo operato contro l’Isis, il 37% della sua posizione su Israele e il 35% del suo operato in Ucraina.

È probabile ora un allontanamento dalla realpolitik obamiana verso un maggiore interventismo. Ma oltre ad alcune istanze specifiche (si allontana ora definitivamente la prospettiva della chiusura di Guantanamo), i repubblicani non hanno un’agenda precisa al di la di un generico maggiore militarismo. Nel partito ci sono, è vero, falchi come John McCain, fautori dell’invio immediate di truppe in Siria e Iraq ma in materia di interventi militari nell’ordinamento americano l’ultima parola rimane quella del commander in chief e fra gli stessi repubblicani esiste anche una corrente neo-isolazionista che fa capo alla fazione “libertarian” di Rand Paul, uno dei beniamini del Tea Party con aspirazioni presidenziali.

La divergenza di opinioni in merito sottolinea le divisioni interne del partito repubblicano che paradossalmente potrebbero essere accentuate dalla vittoria di ieri. Dopo la vittoria Mitch McConnell, il neo leader della maggioranza del senato, ha sostenuto la necessità di collaborare col presidente almeno su alcuni temi di vitale importanza nazionale ma Ted Cruz, leader dei falchi Tea Party del Texas lo ha immediatamente smentito, giurando resistenza ad oltranza.

Cruz come Rand Paul e Paul Rubio della Florida è uno dei «colonnelli» della destra che si adopreranno per il sabotaggio ad oltranza per assecondare la base in vista di una possibile candidatura presidenziale. McConnell e l’ala istituzionale del partito avranno un bel daffare per contenerli. Nel conseguente stallo politico il perdente quasi certamente sarà il paese.