Nell’anno della distopia realizzata, in cui un razzista misogino siede alla Casa bianca, la vittoria di The Handmaid’s Tale (creata da Bruce Miller per Hulu, e che in Italia verrà trasmessa dal 26 settembre su TimVision) come miglior serie drammatica agli Emmy Awards è il modo in cui gli «Oscar della tv» recepiscono lo spirito del tempo e rilanciano l’opposizione del mondo dello spettacolo statunitense al governo Trump – continuamente chiamato in causa durante la cerimonia di domenica scorsa dal presentatore Stephen Colbert e da molti dei premiati. A prestarsi facilmente alle prese in giro è il passato di Trump come uomo dello spettacolo: anche il suo reality show The Apprentice aveva partecipato agli Emmy, senza però mai vincere nulla. «Diversamente dalla presidenza, gli Emmy vanno ai vincitori del voto popolare» ha ironizzato Stephen Colbert, che ha anche recitato un breve sketch con l’ex portavoce della Casa bianca – silurato dal Trump – Sean Spicer.

Molto più dura è stata Jane Fonda, sul palco insieme a Dolly Parton e Lily Tomlin, protagoniste insieme a lei del film del 1980 Dalle 9 alle 5: «In quel film ci rifiutavamo di prendere ordini da un bigotto sessista, egocentrico, bugiardo e ipocrita», ha detto l’attrice evocando il presidente.
Tratta dall’omonimo romanzo distopico del 1985 della scrittrice femminista Margaret Atwood , la serie che ha trionfato agli Emmy ha raccolto un totale di otto premi, tra i quali quello alla sceneggiatura, alla miglior attrice non protagonista (Ann Dowd), e anche alla miglior attrice protagonista Elisabeth Moss, già candidata altre tre volte agli Emmy per la sua Peggy Olson di Madmen.

Ambientato nel New England dei processi alle streghe di Salem in un futuro indefinito, The Handmaid’s Tale è la storia raccontata in prima persona dall’ancella del titolo, Offred (Moss), una schiava nella nuova società retta dal governo teocratico e totalitario di Gilead – nuovo nome degli Stati uniti. Come tutte le altre ancelle, Offred è di proprietà di una famiglia della nuova aristocrazia di Gilead: il loro ruolo, in un mondo afflitto da un drastico calo delle nascite, è mettere al mondo dei figli per i loro «proprietari» – e a questo scopo vengono regolarmente stuprate nel corso di quella che viene chiamata «la cerimonia».

Il brutale nuovo mondo fondato sull’oppressione della donna immaginato da Atwood si presta così in modo evidente a una lettura apocalittica alla luce degli stessi eventi della contemporaneità, richiamata anche dal riversarsi di migliaia di rifugiati in fuga da Gilead nel vicino Canada, dove si organizza la ribellione. Stranamente, invece, non viene recepita la tematica razziale del romanzo: alla Gilead «ariana» di Atwood si oppone quella della serie tv dove l’oppressione prende di mira unicamente il genere femminile, benché tra i peggiori aguzzini – come nei campi di sterminio e tra gli schiavi nelle piantagioni – ci siano i «kapò» nominati dai padroni tra gli oppressi: le donne stesse.