Quel che resta del ponte Morandi, una sorta di gigantesco dito accusatorio, rappresenta plasticamente un giudizio senza appello di un’ intera classe dirigente, e di un’intera stagione, quella delle privatizzazioni. Sotto le macerie, è finito particolarmente il centro sinistra, e nel girone più profondo la sinistra dei privatizzatori.

I fischi e gli applausi al funerale delle vittime non sono stati altro che, direbbe Elias Canetti, una forma drammatica di psicologia di massa, con un carattere da giudizio biblico.

La presenza pubblica ha svolto per decenni un ruolo di motore dello sviluppo, uno strumento formidabile per affrontare gli squilibri storici, come la questione meridionale.

A cavallo del secolo si realizza il più grande trasferimento della proprietà e quindi della ricchezza della storia del Paese. Banche, assicurazioni, imprese, servizi. Il passaggio investe sia la concentrazione della ricchezza (a proposito dell’esplodere delle diseguaglianze) ma ancora più il funzionamento generale del sistema produttivo: dall’equilibrio tra le aree (la questione settentrionale sostituisce la questione meridionale), al ruolo delle grandi imprese nel passaggio storico dalla dimensione nazionale alla dimensione europea e poi mondiale dei mercati.

Il processo ha il suo momento d’inizio nella privatizzazione della cosiddetta “foresta pietrificata” – formula di Amato, – del sistema bancario. Nel 1993 si abroga la legge bancaria del 1936. Entra in vigore il nuovo Testo Unico Bancario. Si ri-adotta il modello della banca universale.

Si cancella la separazione tra banca d’investimento e banca commerciale. Iniziano le grandi operazioni di concentrazione e cadono le barriere residue alla piena finanziarizzazione dell’economia (negli Stati Uniti, la più grande riforma di struttura dell’era rooseveltiana – la separazione tra le due funzioni bancarie –viene cancellata, con Clinton, nel 1999.)

Il profitto della banca diventa il parametro della retribuzione del banchiere. E in un sistema bancocentrico come quello italiano, tale scelta accentua la tendenza degli imprenditori a far indebitare le loro aziende piuttosto che capitalizzarle. Da qui il nanismo permanente del nostro sistema produttivo, in cui il 95% delle imprese ha meno di dieci dipendenti.

La privatizzazione del sistema bancario fa da apripista alla privatizzazione a valanga del sistema industriale pubblico. Per paradosso, alla grande ritirata dello Stato fa da controcanto la proposizione di un sindacato che fa dei diritti la sua parola d’ordine, come se i diritti non presupponessero uno Stato forte, ma vivessero di sé stessi. L’Italia – con lo smantellamento dell’intervento pubblico – si avvia a diventare un paese senza più grandi Imprese: un sistema invertebrato.

Il sole della Lehman Brothers illumina fino in fondo la fragilità fino al dilettantismo di tale scelta. L’onda distruttrice della crisi si abbatte sull’Europa, ma a subirne i contraccolpi più duri sono soprattutto i paesi meno strutturati. Molti ancora oggi ritengono – specialmente i cantori interessati della flessibilità del lavoro – che la tenuta della Germania sia dovuta ai minijobs introdotti da Schroder.

In realtà dietro la potenza dell’apparato produttivo tedesco, prima ancora di altri fattori, sta la Banca Pubblica KfW che assicura i “capitali pazienti” di cui parla M. Mazzucato, e Fraunhofer, la rete di istituti di ricerca pubblica, che garantisce collegamenti sistematici tra scienza ed industria.

In Italia complice la sinistra dei privatizzatori, abbiamo avuto – al posto della creazione di una Fraunhofer italiana -, il Jobs Act, l’ultima stazione della via crucis,iniziata con Treu, delle leggi sulla “flessibilizzazione del lavoro”.
Quando il governo privatizzò, all’inizio degli anni ’90, Telecom Italia, la prima cosa che fece la compagnia telefonica fu quella di tagliare la Ricerca/Sviluppo. Stessa cosa per la siderurgia. Stessa cosa, mediamente, per le tante aziende privatizzate.

Ancora oggi, menti sottili ma non completamente disinteressate, visti i ruoli coperti successivamente in Autostrade, come Cassese o Costa, ministri di Prodi, rivendicano la giustezza e lungimiranza di quella scelta.

Sinteticamente tutta la loro teoria può essere tradotta in uno schema contrattuale: il privato gestisce , lo Stato regola. Lo Stato regolatore sostituisce lo Stato imprenditore: regola il privato attraverso la costituzione di authority “indipendenti”. Dal contratto scaturisce il controllo. Come se le privatizzazioni si potessero ridurre ad una questione giuridica, marginalizzando la dimensione economica, sociale, e soprattutto politica.

Sorge una domanda persino elementare: la regolazione richiede competenza, ma la competenza è il prodotto di una gestione che forma, affina e produce expertise ; come fa uno Stato senza gestire, pretendere di regolare una situazione che non conosce perché non gestisce? Banalmente se si è capaci di regolare, si è capaci, pour cause,anche di gestire.

Con lo smantellamento in blocco dell’economia mista – senza distinguere i panettoni dall’acciaio – si realizza la fine della grande impresa. La managerialità pubblica dispersa al vento, settori strategici sotto controllo straniero, specie tedesco o francese, l’intero sistema produttivo perde in coesione e competitività. Lo Stato perde progressivamente ogni capacità di visione strategica. A nord della linea gotica, buona parte del sistema industriale è integrato nella catena del valore dell’industria tedesca. Oggi qui siamo.

Il luogo comune descrive l’impresa privata come una forza innovativa, lo Stato come un pachiderma burocratico. La sinistra delle privatizzazioni ha portato la sua tradizione storica sotto i calcinacci del Ponte di Morandi. Senza una nuova concezione del Pubblico, dello Stato, la sinistra si riduce a fervorini retorici, esortativi, da profeta disarmato. Si condanna alla inutilità o peggio ancora alla rinuncia delle sue ragioni originarie.

Contro la vulgata dominante, senza gli investimenti guidati dal settore pubblico, dall’agenzia Darpa, – come sostiene Mazzucato – la Sylicon Valley non sarebbe mai esistita. Al tempo della rivoluzione informatica, al tempo della sua inimmaginabile “potenza di calcolo”, alla base di ogni discorso sullo sviluppo va posto il nesso tra industria e scienza. Il rapporto tra ricerca scientifica e industria rappresenta, come mai, il cuore del rapporto tra crescita e innovazione.

Il crollo del ponte di Morandi squaderna sotto gli occhi di tutti la necessità di un Piano nazionale di ricostruzione di gran parte delle infrastrutture del Paese. Di un vero e proprio Piano del Lavoro, avrebbe detto Di Vittorio.