Di anarchismo si è parlato sempre assai poco, e sempre in maniera confusa e contraddittoria, creando nell’immaginario collettivo l’idea di una dottrina politica inneggiante il caos, priva dei fondamenti normativi essenziali per la progettazione di una società libera da qualsiasi rapporto di dominio, e che tuttavia l’anarchismo rigetterebbe nella negazione di ogni forma di autorità politica.

MASSIMO LA TORRE, nel suo Nostra legge è la libertà. Anarchismo nei moderni (DeriveApprodi, pp.282, euro 20), intende recuperare l’attualità e la rilevanza teorica e politica dell’anarchismo evidenziando il suo legame molto stretto, talvolta troppo trascurato, con la democrazia e il liberalismo.
Nello sviluppo della teoria politica anarchica il problema della legittimazione dell’autorità si impone immediatamente come centrale, e le soluzioni offerte sono svariate: dall’idea della giustizia come «entità distributiva» al mutualismo federalista proudhoniano, alle libere associazioni di Bakunin, e così via.

IL QUADRO CHE EMERGE è quello di un anarchismo politico inteso come «ideale discorsivo»: da un lato esso fonda la sua normatività in un’etica essenzialmente giusnaturalistica, dall’altro si configura come «l’esito e la forma politica della lotta per il riconoscimento» di una specifica forma di esistenza sociale, che combatte le istituzioni autoritarie soltanto nella misura in cui queste producono una sottrazione di dignità e di autonomia.
E così la democrazia, i diritti dell’essere umano, l’opinione pubblica come sede privilegiata di deliberazione normativa sarebbero il punto di arrivo di un lungo percorso di emancipazione che condurrebbe ad una «anarchia possibile».
Se questo percorso di emancipazione è annunciato già dal razionalismo liberale illuministico, allo stesso tempo, per l’autore, «è il liberalismo il punto di arrivo di motivi anarchici, anzi di un percorso sotterraneo di sovversione politica che è quello stesso che muove l’anarchismo».

TANTO CHE LO STATO stesso potrebbe essere riabilitato positivamente nel solco dell’anarchismo politico, superando così lo scoglio contro cui l’anarchismo filosofico («forma parassitaria» e «surrogato» del primo) si infrange eternamente, accertando il problema della giustificazione del potere senza però riuscire a fornire un modello plausibile della «forma di vita libertaria e della sua istituzionalizzazione».

Per La Torre l’anarchismo, lungi dal perseguire «le fumisterie e l’idealismo nebuloso» di una anarchia completa, dovrebbe invece delineare i tratti di un’anarchia possibile, realizzabile mediante un tentativo di controllo e di regolamentazione delle istituzioni, nel tentativo di dare loro una forma eterna e immutabile, non limitata alla singola contingenza storica. D’altra parte – questa la convinzione dell’autore – «la forma come tale è perenne, o meglio è in-contingente, mentre la contingenza e la contemporaneità sono caratteristiche del fluire delle esigenze e dei bisogni sociali».
Opportunamente reinterpretata «sotto la tutela di un nuovo spirito del tempo», la prospettiva libertaria può così affrontare la questione dell’autorità e della istituzionalizzazione del potere con una maggiore disinvoltura, per produrre una normatività comunicativa, e alla sua circolarità virtuosa affidare la progettazione di un destino sociale comune.

PECCATO CHE il nuovo spirito del tempo a cui si faccia riferimento sia nient’altro che un prodotto della modernità illuministica il cui ottimismo razionalista sembra essere oggi difficilmente sostenibile: non solo perché l’anarchismo filosofico novecentesco ha posto una volta per tutte il problema dell’identità di razionalità e dominio, demolendo l’idea tutta moderna di un progresso illimitato, e ancora ponendo la questione (peraltro tutta proudhoniana) della possibilità di una governamentalità antiautoritaria.

Ammorbidita la critica allo Stato come radice della violenza e dell’ingiustizia sociale, la teoria anarchica appare qui costretta nel letto di Procuste di un formalismo normativo di stampo habermasiano, e nell’idea di un agire comunicativo virtuoso, capace di produrre, attraverso il consenso, l’armonizzazione sociale.
Quasi dimenticando che quelle istituzioni all’interno delle quali il discorso avviene, sono in grado di produrre consenso senza doversi sforzare di essere comunicative: ad esse basta far valere, come miglior argomento, l’esercizio legittimo, normativo, della violenza.