Dopo aver indagato la regia, il secondo anno della ricognizione che Antonio Latella sta dedicando allo stato dell’arte teatrale non poteva che riguardare l’attore/performer. Una figura dai confini incerti, come dice già il binomio che cerca di contenerla e si apre piuttosto verso i confini con la danza, la performance, le arti visuali, persino la clownerie e il circo. E anche qui non mancano le sorprese, cioè i nomi meno scontati e molti femminili fra l’altro, fra quelli scelti dal direttore della Biennale teatro. Non per caso a parecchi dei protagonisti è stata riservata una sorta di piccola personale che ne inquadra meglio il lavoro.

Ma prima c’è da dire degli Spettri che Leonardo Lidi ha tratto molto liberamente dall’omonimo dramma di Ibsen e gli è valso il premio della Biennale college fra i registi under 30. Una bella performance attoriale comunque. Se ne stanno affiancati su una panchetta di fronte agli spettatori e per tutta la prima parte non si muovono o quasi, salvo quando l’esplodere di un liscio li trascina in un ballo. Si fanno conoscere, ciascuno con la propria bizzarria. La giovane Regine ha un sorriso stampato sul volto e una corona sul capo argentato – è Matilde Vigna, la sua presenza che ci è quasi familiare dopo i due giorni trascorsi insieme nel bellissimo Santa estasi di qualche stagione fa. Michele Di Mauro porta una pinna da sub a un piede e Mariano Pirrello una semplice veste nera di taglio femminile – entrambi recitano un doppio ruolo nel plot familiare che così risulta ancora più complicato. Fino a che sugli immobili protagonisti comincia cadere una pioggia d’acqua che trasforma la scena in un acquitrino. Ed è il segnale della dissoluzione del precario equilibrio che reggeva i fili dei rapporti familiari, rivelandone la violenza pronta a esplodere. La famiglia è la malattia, materializzata dalla paralisi spastica che fino a lì ha segnato il protagonista negato. Che a strage avvenuta può alzarsi e uscire di scena guarito dalle sue contorsioni. Lasciando un dubbio sulla necessità di quella sgradevole imitazione per arrivare a questa conclusione.

«Uniform» di Jorge Leòn

Sul piano dell’attore/performer l’esperienza apparentemente più sperimentale è quella offerta da Everything fits in the room di Simone Aughterlony, neozelandese basata in Europa, dove interpreti e spettatori si muovono insieme intorno a un muro eretto al centro dello spazio scenico. Più tradizionale lo spazio a pianta centrale di Uni*form, creato insieme a Jorge León, regista e cineasta belga di cui di recente avevamo visto a Bruxelles un lavoro assai multimediale. Entrando vi si trova un gruppo di bambini abbigliati da poliziotti che saltano su materassini e ciambelle gonfiabili, anticipando i giochi di dominio e sottomissione via via più pesanti dei sette interpreti che hanno preso il loro posto, fra cui la stessa Aughterlony, pure in divisa della polizia, come da titolo.

«Jerk» di Gisèle Vienne

Il nome forse più conosciuto è però quello della francese Gisèle Vienne, quarant’anni compiuti da non molto, studi di filosofia alle spalle e un lavoro che nasce dal teatro delle marionette e arriva all’incontro con la danza, due forme espressive che in maniera diversa hanno a che fare con il corpo. Dalle fantasie intime espresse dalle sue bambole, la sua ricerca si spostata verso un ambito più collettivo, grazie anche alla collaborazione con lo scrittore americano Dennis Cooper, autore del testo di Jerk, spettacolo che risale al 2008 ed è forse il suo più narrativo. Il lavoro ricostruisce infatti la vicenda di un serial killer che uccise oltre venti ragazzi nel Texas negli anni settanta, fingendo che a raccontarla davanti agli studenti di un’università, usando dei burattini, sia uno dei suoi complici adolescenti. (L’anatomia di un omicidio ricorre con più leggerezza anche nel lavoro dell’olandese Davy Pieters, How did I die).

Seduto su una seggiola, l’attore Jonathan Capdevielle, altro collaboratore abituale di Gisèle Vienne, inventa voci diverse per i protagonisti, fedele alla lezione dei vecchi pupari siciliani sull’importanza del cunto. Il culmine si raggiunge nell’ultima parte quando l’attore fa ricorso alla tecnica della ventriloquia per rendere ancora più inquietante la disumanizzazione di quei corpi ridotti a oggetto.