«C’è una tendenza, nelle trame, a evolvere in direzione della morte»: così scriveva Don DeLillo nel suo capolavoro Libra, romanzo centrato sull’omicidio di Kennedy in cui la tanto anticipata narrazione dei «sette secondi che spezzarono la schiena al secolo americano» arriva solo alla fine del libro, senza peraltro dissipare il mistero che da sempre avvolge la dinamica degli eventi. In modo simile è strutturato Il tuffo, terzo romanzo dello scrittore britannico Jonathan Lee, appena uscito in Italia nella buona traduzione di Sara Reggiani (Sur, pp. 445, euro  18.50). L’anno è il 1984 e l’evento che funge da centro gravitazionale dell’intera vicenda è l’attentato all’allora primo ministro Margaret Thatcher.

Nella notte del 12 ottobre una bomba esplode al Grand Hôtel di Brighton, dov’è in corso il congresso del Partito Conservatore britannico; Thatcher, che è in camera ad apportare gli ultimi ritocchi al suo discorso, ne esce illesa, ma cinque persone muoiono nell’esplosione e trenta restano ferite. Nei mesi successivi un membro dell’IRA, Patrick Magee, è condannato a otto ergastoli, colpevole di aver posizionato e innescato la bomba a orologeria dopo essersi registrato in albergo sotto falso nome. C’è il sospetto che abbia agito con un complice – alcuni membri del personale dell’hôtel ricordano vagamente una persona che era con lui – ma di quest’uomo non è rimasta traccia. Esiste sempre un confine oltre il quale la ricostruzione storica non può spingersi, ed è qui che subentra la narrativa: secondo Jonathan Lee, solo la fiction può farci entrare «sotto la pelle della storia».

L’affascinante prologo del romanzo si apre proprio con l’iniziazione nell’IRA del giovane Dan: il ragazzo è al cospetto di Dawson, uno dei pezzi grossi dell’organizzazione; su di lui girano voci terribili, ma a Dan sembra più un innocuo ragioniere; dice di amare i cani che porta al guinzaglio più di sua moglie, chiede al ragazzo se conosce Shakespeare, gli ricorda che «un’Irlanda occupata dagli inglesi non sarà mai un’Irlanda libera», e a un certo punto porge a Dan una pistola, offrendogli tre alternative: «Sparare a un cane, la prima. Farti sparare, la seconda. La terza è sparare a noi. Anche se quest’ultima non ti conviene».
Dalla decisione di Dan si propagano, come increspature sull’acqua, le vicende del romanzo. In un’intervista l’autore ha accomunato la struttura del libro a un tuffo da una piattaforma di dieci metri: «Volevo mostrare il volo del tuffo a partire dal primo slancio – i piccoli gesti e le parole dai quali può scaturire un tentato omicidio – passando per tutti gli avvitamenti e le capriole, fino al momento irreversibile dell’impatto. Come facciamo a sapere cosa va perso in un atto terroristico se non guardando a fondo quello che c’era prima?».

Durante la lunga e aggraziata caduta libera facciamo la conoscenza di Philip «Moose» Finch, vice direttore del Grand Hôtel che in gioventù aveva davanti a sé una carriera di tuffatore ma che si è ritrovato, ultraquarantenne e con un matrimonio fallito alle spalle, a puntare tutto sulla buona riuscita del Congresso per ottenere un’agognata promozione; sua figlia Freya, alle prese con le speranze e le indecisioni tipiche dell’adolescenza, le prime delusioni d’amore, un rapporto complicato ma affettuoso col padre, un futuro ancora vago davanti a sé. E poi tutta una serie di comprimari non meno affascinanti e credibili – quella gente che, come afferma l’autore, «se mai finisce nei libri di storia, viene relegata alle note a piè pagina o racchiusa tra parentesi».

Lo stile di Lee è elegante senza essere pretenzioso, i dialoghi hanno un ritmo cinematografico e la narrazione – che all’inizio procede forse un po’ troppo a rilento – acquista sempre più velocità, la tensione si accumula, gli eventi precipitano verso l’inevitabile impatto. Se è vero, come ha scritto DeLillo, che la narrativa è «la sospensione della realtà di cui ha bisogno la storia per sfuggire ai propri confini brutali», Il tuffo di Jonathan Lee ci regala la consapevolezza – più che mai preziosa in questi tempi di terrorismo – che forse non ha senso parlare di buoni e cattivi, colpevoli e innocenti: prima o poi la storia sommerge tutti.