Una donna coraggiosa. Una donna che ha avuto il fegato di ribellarsi ad una tradizione patriarcale che assegna alla madre solo un ruolo “complementare” al marito, senza nessun diritto sui figli. N.P.B., 41 anni, attualmente è costretta a vivere nascosta in una città dell’Emilia Romagna, inserita in un programma di alta protezione dall’associazione Donne e Giustizia di Ferrara. Ma N. è anche una donna disperata. I suoi due bambini, U.S, di 9 anni, e la sorellina S.S., di 8 anni, sono obbligati a vivere lontani da lei, nascosti in casa di uno zio materno, ad Islamabad.

UNA SITUAZIONE pesantissima, che si protrae dal gennaio del 2018, da oltre due anni durante i quali i due bimbi non hanno potuto frequentare nessuna scuola e sono stati privati anche di ogni assistenza sanitaria. Una vicenda che ha del paradossale, soprattutto se si considera che i due bambini sono entrambi cittadini italiani. Sono nati e cresciuti entrambi in Italia, nelle Marche, da un padre, M.B. di 38 anni, che, se pure di origine pakistana, ha la cittadinanza italiana.

ED È PROPRIO IL PADRE, trovatosi una nuova compagna, li ha portati in Pakistan e abbandonati ad Islamabad, dopo aver sottratto tutti i documenti per impedire loro di far ritorno in Italia. «Una pratica di, chiamiamolo “divorzio”, purtroppo molto diffusa tra la comunità pakistana dove le caste e la tradizione patriarcale, in cui la donna conta meno di un capo di bestiame, sono regole non scritte ma accettate a tutti i livelli sociali.

QUANDO UN UOMO SI STUFA della propria moglie, sposata, come è avvenuto per N, per procura e per intercessione delle famiglie, la rispedisce semplicemente alla sua famiglia come una merce scaduta. Poi il marito, padre e padrone, ritorna in Europa, si risposa con chi vuole lui perché il secondo matrimonio è sempre più libero – anche se le regole di casta vanno lo stesso rispettate – e non ha nessun obbligo di restituire la dote e, soprattutto, di accollarsi il mantenimento dei figli», spiega Grazia Satta dell’associazione PortAmico del Comune di Portomaggiore (Fe) che, non a caso è uno dei Comuni italiani con maggior presenza della comunità pakistana.

È a PortAmico che N. si è rivolta per cercare aiuto, dopo che è stata costretta a fuggire dalla città marchigiana in cui risiedeva per le minacce ricevute da alcuni esponenti maschili della locale comunità pakistana. La sua colpa è di non aver accettato questo costume «tradizionale» e di essere rientrata in Europa, passando per l’Inghilterra – Paese per il quale non è previsto nessun visto per chi proviene dal Pakistan – per chiedere giustizia. Non ha potuto portare con sé i suoi due bambini però, perché il padre ha sottratto tutti i loro documenti, e li ha affidati ad un suo fratello. Ottenere un duplicato, in Pakistan, è una pratica semplicemente impossibile per una donna se non c’è anche la firma di un uomo. Tutto, in una famiglia, appartiene al padre o, in alternativa, ai figli maschi.

«I DUE BAMBINI, che ricordiamolo ancora una volta sono cittadini italiani, stanno vivendo una situazione di altissimo rischio – spiega Germana Mascellani, operatrice di PortAmico -. Se prima erano considerati solo come un fastidio, ora, grazie alla ribellione di N., sono diventati uno strumento di vendetta trasversale.

La famiglia dell’ex marito, il padre e i fratelli di lui, hanno fatto istanza al tribunale di Islamabad per avere la tutela dei bimbi. Sino ad ora, lo zio materno è riuscito a rinviare le udienze grazie a certificati medici e ad altri accorgimenti, ma il tempo stringe. Noi ci siamo rivolte a tutte le istituzioni, dalla Farnesina alla Presidenza della Repubblica, perché intervengano presso l’ambasciata italiana del Pakistan perché rilascino una copia del passaporto ai due bambini che permetta loro di ricongiungersi con la madre, ma sino ad ora non abbiamo ricevuto risposte. La donna è disperata. Non può tornare in Pakistan, non può riabbracciare i figli, non può garantire loro un futuro. Ma è una donna che ha avuto il coraggio di ribellarsi. È una donna che va aiutata, e il più presto possibile, anche perché possa essere d’esempio per tante altre donne che subiscono questi soprusi».

N. NON HA LA CITTADINANZA italiana. Arrivata nel nostro Paese è sempre stata tenuta segregata in casa dal marito padrone. Prima che si rivolgesse a PortAmico, non era neppure mai stata in un supermercato. Germana e Grazia ricordano ancora la sua emozione quando l’hanno accompagnata per la prima volta a fare una spesa in un luogo per lei così strano, pieno di donne libere che riempivano il carrello dei prodotti che sceglieva loro.

SE NON CI FOSSERO stati i decreti Sicurezza che hanno bloccato la sua richiesta di cittadinanza in itinere, forse sarebbe anche lei una cittadina italiana e tutto le sarebbe stato più facile. Ma senza quel pezzo di carta, all’ambasciata italiana di Islamabad non le hanno lasciato neppure mettere dentro il naso. I bambini sì, loro sono italiani, ma in Pakistan senza la firma del padre, senza la firma di un uomo, non possono chiedere neppure una copia di un qualsiasi documento. Neppure per frequentare una scuola o per andare dal medico.

N. e i suoi figli possono, per questo, ringraziare Salvini.