In politica le aspettative deluse producono frustrazione.Quanto accadde già al tempo del primo centrosinistra, che doveva inaugurare la stagione delle riforme e si impantanò negli sfinimenti morotei; sta avvenendo oggi, mentre i presunti tsunami di febbraio rifluiscono nello sfibrante scirocchetto romano.

A quei tempi la frustrazione produsse fatalismo di massa, ma anche circoscritte quanto sanguinose insorgenze. La scommessa odierna è quella di una generale passivizzazione, resa ancora più probabile dal fatto che se negli anni Sessanta esistevano accumuli di energia sociale di notevole potenza e per vario utilizzo, oggi la società risulta sfiancata da impoverimenti e precarizzazioni.

Questo è quanto sembrano indicare i barometri delle tendenze collettive, registrando minime oscillazioni statistiche nell’orientamento al voto verso Pd e Pdl, a fronte di una caduta di quello verso M5S e la contestuale espansione a macchia d’olio dell’astensionismo. Dati che confermano l’utilità del condominio di governo per le forze dell’attuale (“strana”?) maggioranza, tranquillamente indifferenti al restringersi della base elettorale. La rendita di posizione consente di definire gli organigrammi ripartendo il suffragio residuo.

Dati – soprattutto – che premiano Letta jr. nel suo ruolo di giovane premier, per aver raggiunto il vero obiettivo di mandato che aveva ricevuto insieme all’incarico: evitare le elezioni; pericolose tanto per un Pd perennemente in cantiere come per Berlusconi, che difficilmente potrebbe trovare una collocazione più favorevole di quella attuale.

Ovviamente il cicaleccio ufficiale della politica blatera di tutt’altro: riforme a go-go, disoccupazione giovanile o meno da sconfiggere, rilancio economico da attuare e – naturalmente – ruolo dell’Italia nell’Unione europea da valorizzare.

Ma è solo rumore, a coprire i sussurri di una corporazione politica che per continuare a durare deve far sbollire la pressione sociale. E la lancetta che misura il trend positivo nell’operazione in corso è quella che indica il costante diffondersi del disincanto fatalistico. Che consentirà ancora una volta alla corporazione della politica di perpetuare la propria presa sulla società. Visto che, grazie agli sfinimenti di un democristianesimo redivivo, sta consolidandosi in chi sino a ieri si indignava, la convinzione dell’inutilità della protesta.

Si diffonde la sottomissione, mentre ancora una volta i ceti dominanti fissano le priorità di cosa è socialmente necessario (in sostanza la tutela delle proprie funzioni). Quel meccanismo mentale che il sociologo Barrington Moore jr. – in un saggio edito da Comunità nel 1978 (“Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta”) – indicava come la modalità più economica per esercitare la coercizione: l’interiorizzazione in termini di apprezzamento da parte delle sue stesse vittime. Una sorta di “sindrome di Stoccolma” applicata alla politica (il vassallaggio psicologico del sequestrato nei confronti dei sequestratori).

Da qui la contromossa suggerita da Moore: «Uno dei principali compiti culturali che si pongono a qualsiasi gruppo oppresso è di minare o screditare la giustificazione del ceto dominante». Ossia, recuperare l’indignazione all’impegno politico abbattendo l’autorità morale della sofferenza e dell’oppressione.

Ma chi è pronto a impegnarsi in questo ruolo critico di smascheramento per nuovi inizi democratici? I Cinquestelle, in bilico tra un corso di ragioneria contabile e la Santa Inquisizione? La sinistra di Pd e Sel, con tutti i loro riflessi condizionati di politica politicante? Un’intellighenzia nazionale che in larga misura ha tratto dal postmodernismo solo la sufficienza di uno scetticismo blu refrattario all’impegno? Intanto proseguono indisturbate le operazioni che, sotto il paravento di un’ennesima stagione delle riforme, sterilizzano la rabbia sociale attraverso l’uso sistematico del rinvio.