Si è autodefinito come «il granello di sabbia nell’ingranaggio dell’identità», vale a dire sempre fuori posto, sempre estraneo all’immagine di sé che gli altri vorrebbero imporgli. Nato ad Abidjan da padre mauritano, diplomatico e musulmano, e da madre francese, professoressa e femminista, cresciuto da un nonno bianco e cristiano che non gli perdonerà mai di «avere una faccia da arabo», in poco più di cinquant’anni di vita Karim Miské ha attraversato molti mondi. Alcuni reali, oltre alla sua Parigi dove vive non lontano da Belleville, la Mauritania che ha visitato da adolescente scoprendo che la famiglia paterna discendeva da una stirpe di schiavisti e l’Albania di Enver Hoxha, di cui la madre comunista ortodossa era una ammiratrice. Altri simbolici, come la letteratura che considera come la sua «vera unica patria». O le opere di George Orwell, Jean-Paul Sartre e Hannah Arendt che lo hanno aiutato a smontare di volta in volta i «miti» che gli si voleva inculcare. Per finire con la musica, da Patti Smith al reggae passando per il punk, cui sempre la madre gli chiedeva di rinunciare, dovendo scegliere tra ciò che lei chiamava «il jazz» e «la rivoluzione».

Un itinerario condotto attraverso una serie di identità, culturali, religiose, politiche, di genere con cui Miské ha dovuto misurarsi fin dall’infanzia, nel tentativo di pensarsi oltre lo sguardo e il pregiudizio degli altri che ci restituisce ora in Appartenersi (Fazi, pp. 96, euro 15), un libro fuori dagli schemi, che fagocita con allegria canoni e stili narrativi tra loro diversi, proponendosi come un valido antidoto all’abbraccio mortale di ogni sorta di appartenenza identitaria che reclami fedeltà assoluta e altrettanto cieca fiducia.

Un’opera con cui Miské, tra le presenze più attese al Salone di Torino di quest’anno – dove interverrà domenica all’Arena Piemonte alle 16,30 – che ha studiato giornalismo a Dakar, prima di diventare uno dei più noti documentaristi francesi, autore di film come Islamisme: le nouvel ennemi, Musulmans de France e Juifs et musulmans, porta a compimento un percorso iniziato già con Arab Jazz, (Fazi) in cui il tema dell’identità e delle sue derive fondamentaliste era affrontato attraverso un romanzo poliziesco.

Partiamo dal titolo del suo libro. Nell’originale francese era «N’appartenir», «non appartenere», quasi il viaggio che lei compie attraverso i diversi aspetti dell’identità avesse come principale obiettivo la ricerca del modo più efficace per prenderne le distanze in modo definitivo. Era questo l’obiettivo?
Diciamo che ho cominciato a stendere una prima versione del libro quando ho finito di girare il documentario Musulmans de France nel 2009. Si era nel pieno del dibattito sull’identità nazionale (alimentato da Sarkozy, n.d.a.) e cominciavo ad averene decisamente le scatole piene, come molte altre persone. Sentivo il bisogno di rispondere a quel clima opprimente che regnava nel paese, ma, allo stesso tempo, di parlare di qualcosa che avevo avuto in testa da sempre, cercando però di evitare di scivolare nella autofiction. L’idea di fondo era di sviluppare il concetto del Non appartenere in termini positivi, come una presa di posizione, e allo stesso tempo la definizione di un possibile ruolo nella società, e far sì che ciascun lettore potesse far propria questa prospettiva. Perché quali che siano le origini e i percorsi individuali, c’è sempre un momento in cui sentiamo di non far parte o di non rientrare davvero nell’identità che ci viene assegnata dagli altri, dalle nostre famiglie come dalla società.

Ha deciso di scrivere questo libro mentre stava girando il documentario sulla comunità musulmana francese che le è valso poi importanti riconoscimenti. Perché proprio allora ha sentito che le etichette che le venivano imposte andavano in pezzi?
La risposta è semplice: perché allora le circostanze mi hanno posto faccia a faccia con questa immagine di me che si era costruita nello sguardo degli altri. Sono nato nel V arrondissement, una zona residenziale dove vive la buona borghesia parigina, in una strada a due passi dal Quartiere Latino. Sono cresciuto con mia madre e i miei nonni bianchi che venivano rispettivamente dai Pirenei e dalla Bretagna. Quanto alla Mauritania, il paese di mio padre, è entrato a far parte solo molto tardi del mio vissuto. Eppure, per tutta la vita, fin dai tempi delle elementari mi sono sentito dare del «faccia da arabo». Ciononostante, quando mi è stato proposto di realizzare Musulmans de France, mi sono interrogato sul fatto di essere o meno la persona più adatta. Ero un musulmano, un arabo, cosa sapevo di quella cultura? Ma cosa sapevo di me stesso?
Quando ho accettato quell’incarico ho per certi versi riconosciuto anche di sentirmi parte della storia che avrei raccontato, ma l’ho fatto a modo mio. Ho letto le Riflessioni sulla questione ebraica di Sartre e ho scritto un articolo per Le Monde in cui sostenevo che «è l’islamofobo che crea il musulmano», come Sartre scriveva «è l’antisemita che crea l’ebreo». Mi rendevo conto che quella era un’identità che gli altri avevano creato per me, su di me. N’appartenir ha rappresentato il passo successivo di questa ricerca. Per la prima volta nella vita sentivo di poter rivendicare pienamente la mia appartenenza ad uno spazio comune, aperto agli altri, formato da più elementi e identità tra loro anche contraddittorie senza il rischio che tutto ciò fosse sinonimo di discriminazione, pregiudizio o addirittura violenza.

L’estremo opposto di questa auspicata emancipazione dalle identità, l’aveva tracciata qualche anno prima in un curioso romanzo noir, «Arab Jazz», ambientato nei quartieri popolari del nordest di Parigi dove convivono non senza attriti arabi ed ebrei, dove si evocava il ruolo crescente dei fondamentalismi religiosi come espressione estrema e violenta della degenerazione dell’appartenenza identitaria e comunitaria…
Alla base di quel romanzo c’era sempre il mio lavoro di regista ed in particolare il documentario Born Again che ho girato nel 2005 per Arte su dei gruppi di fondamentalisti ebrei, cristiani e musulmani che vivono nell’est della Francia. Partendo dall’idea di Freud per cui esiste una sola religione monoteistica da cui muovono poi diverse declinazioni atte a fabbricare altrettante identità tra loro contrapposte, mi sono concentrato su ciò che univa questi gruppi sul piano della fede e sul modo in cui si fronteggiavano invece in modo minaccioso nello spazio pubblico. Quasi dieci anni dopo ho ripreso in mano quei temi per scrivere il mio primo romanzo perché ho avuto la sensazione che quella strumentalizzazione della religione in chiave politica e identitaria si fosse fatta ancora più potente e pericolosa, come è stato evidenziato dal lungo dibattito sul velo islamico.
Il mio intento era quello di smontare le menzogne che stanno dietro questa strategia che mira in realtà al potere e al controllo sulle persone, un po’ come avviene nelle sette. Non a caso, in quel libro compare il personaggio di Ahmed, quasi un mio doppio letterario, che osserva la deriva degli opposti fondamentalismi che caratterizza il quartiere in cui vive, ma sceglie di resistere, attraverso la cultura e la musica, alla richiesta impellente di schierarsi che gli viene da ogni gruppo. Ahmed accetterà «di addossarsi il peso del mondo, pur tenendolo a distanza». Che è poi l’unico modo che conosce di farne parte.

Oltre alla dimensione autobiografica, nelle sue parole sembra di cogliere anche un’eco del malessere che contraddistingue da tempo la Francia che ha fatto dei quesiti sulla propria identità collettiva una sorta di ansia ricorrente…
In effetti credo che la Francia sia il paese che in Europa continua a nutrire di più l’aspirazione ad incarnare valori universali. Solo che ormai da tempo il paese vive una aperta contraddizione tra questa sua pretesa e la realtà sociale e politica interna, visto che non riesce più a garantire l’uguaglianza ai suoi stessi cittadini, come è evidenziato ad esempio dal caso delle banlieue. In realtà tutto ciò è solo il prodotto più recente e visibile di un cortocircuito che si è prodotto in passato e che può essere fatto risalire al momento in cui proprio il paese che si vuole culla dei diritti dell’uomo ha costruito la propria impresa coloniale. Essersi impadroniti di terre lontane e aver imposto il proprio dominio ad altri popoli in nome dei valori di liberté, égalité e fraternité ha rappresentato una rottura definitiva nello spirito della république, che è ben evidenziato ancora oggi dal modo in cui i discendenti di quelle genti colonizzate vengono trattati.
Di fronte al fatto che questi ultimi, a tutti gli effetti cittadini francesi come tutti gli altri, reclamano sempre di più i propri diritti anche nello spazio pubblico, la maschera universalistica cade e riappare il volto inquietante e minaccioso della Francia eterna, bianca e cristiana. L’universalismo va in pezzi e il paese si risveglia scosso da una pericolosa deriva identitaria.