Fra riconoscimenti alla carriera, il bagno di folla locarnese nell’ambito della retrospettiva Titanus, il restauro di Profondo rosso e Paura, autobiografia pubblicata da Einaudi, il 2014 è, tra le altre cose, a sorpresa, un anno argentiano. Come a scongiurare un ritiro dalle scene invocato dai critici più severi, ferocemente delusi dagli esiti degli ultimi lavori di Argento. D’altronde, e questo è senz’altro un elemento che andrebbe analizzato nel contesto più ampio dell’industria cinematografica italiana, la parabola argentiana presenta non pochi punti di contatto con quella di registi come Riccardo Freda, Mario Bava e Lucio Fulci. Autori immediatamente riconoscibili per il loro stile e relative idiosincrasie visive ma legati da un filo rosso alla dimensione produttiva e artigianale di un cinema nazionale che invece nel corso dei decenni si è andata progressivamente indebolendo sino a scomparire del tutto. Come dire che i vari Bava, Freda, Fulci e lo stesso Argento abbiano potuto affermarsi come differenza rispetto a una cultura del set funzionante come tessuto connettivo di un’industria cinematografica viva e diversificata.

 

 

Seguendo l’arco temporale delle pagine di Paura, tornano alla mente Mangiatori di celluloide di Riccardo Freda (curato da Goffredo Fofi e Patrizia Pistagnesi) e Odore di cinema di Aldo Tonti. Il senso della scoperta di un mondo, legato intimamente a un’industria e una produzione, intrecciato alla creatività e al lavoro di un autore, contribuiscono grandemente al fascino di un racconto che rievoca il farsi di una vocazione. Se è vero che a partire da Opera Argento ha faticato a mantenere il passo all’interno di una produzione nazionale che sembrava avere smesso di contemplare la possibilità di dialogare con il suo cinema, sorge inevitabilmente un’altra domanda: le trasformazioni del paese Italia hanno progressivamente reso irriconoscibile un contesto nel quale il cinema argentiano si offriva come un’originalissima forma di sintesi fra geometrie antonioniane, insorgenze pop, cinefilia e contaminazioni rock.

 

 

Era rispetto a un paese riconoscibile come tale che il cinema argentiano si offriva come possibilità di differenza, proprio perché ancorato nella sua storia e cultura. Il cinema argentiano cessa di funzionare quando smarrisce questo inevitabile ma fertilissimo dialogo (destino comune fra l’altro alla maggioranza degli autori «classici»del nostro cinema).
In questo senso Paura offre un tracciato attendibile di come un contesto nutra e favorisca una vocazione, ed è la parte più affascinante del libro, mentre a partire dal dopo Opera si evidenziano le difficoltà di un regista che in assenza di un dialogo (o di un non-dialogo…) con un contesto più ampio deve necessariamente attingere insistentemente al proprio repertorio di ossessioni.

 

 

E se operazioni come La sindrome di Stendhal si offrono come testi esemplari per comprendere la determinazione di Argento nel volere continuare a sfidare se stesso, altri come Il cartaio, nonostante i soliti pezzi di bravura e le intuizioni visive, risultano purtroppo implosi.

 

 

Se il fan fatica a mettere in relazione il regista di Suspiria con quello di Il fantasma dell’opera, una parte della critica (minoritaria) abbraccia con fervore anche esiti unanimemente bocciati (La terza madre). Giallo mette purtroppo tutti d’accordo: il sistema Argento collassa.

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Nel libro, curato da Marco Peano, questo aspetto delle vicissitudini e delle divisioni vissute dalla critica nei confronti dell’ultimo Argento è messo in scena come una sorta di proseguimento dell’incomprensione storica nei suoi confronti, una sorta di destino inevitabile dell’autore maledetto. Eppure, nonostante tutto, il libro, soprattutto quando permette di sbirciare dietro le quinte della biografia del regista, si rivela una lettura piacevole, offrendo dettagli e motivazioni. Certo, il racconto a tratti è eccessivamente piano. I film sono tutti posti su uno stesso livello (cosa lecita per il regista che li ha firmati, ma non per il critico o il semplice fan), mentre sarebbe stato lecito aspettarsi qualche rivelazione inedita o un punto di vista esterno, convocando magari qualche regista-collega-fan a dialogare con Argento.

 

 

 

 

Lo stesso Argento, consapevole di non avere raccontato tutto, dichiara nella nota dell’autore posta alla fine del libro «per ora mi fermo qui». Lasciando intendere forse che esista la possibilità di un secondo volume. In questo senso Paura finisce per assomigliare a film come La sindrome di Stendhal o Nonhosonno. Lavori ferocemente affascinanti e imperfetti che tentano disperatamente di riconquistare la violenza e la purezza di Profondo rosso e Suspiria. A differenza del suo Dracula, che si trasforma anche in mantide religiosa, Dario Argento è restato sostanzialmente identico a se stesso. Un mondo a parte nel sistema del cinema italiano del quale, paradossalmente, oggi è orfano.