Circa un mese fa è uscito a Parigi Baal, un film di Volker Schloendorff del ‘69 (attualmente disponibile in Dvd), tratto dall’omonima pièce di Bertold Brecht (con al centro un personaggio luciferino), dopo una «censura» durata più di 40 anni da parte degli eredi del commediografo che non erano d’accordo sull’adattamento. Interpreti Rainer W. Fassbinder e Margarethe von Trotta, con Hannah Schygulla in un piccolo ruolo. Era il periodo in cui, per entrare nel mondo del cinema, la von Trotta faceva l’attrice – ma soprattutto la sceneggiatrice – dei primi film di quello che stava per diventare Il Nuovo Cinema Tedesco. Erano gli anni ‘eroici’ in cui emergevano, oltre a Schloendorff, registi come Fassbinder, Reitz, Herzog, Fleischman,Wenders, Kluge, Hauff, Staudte, con l’aspirazione di riportare il cinema tedesco alla grandezza degli anni ‘20. Il lavoro di sceneggiatrice, certo ‘sotterraneo’ e poco appariscente, era però fin d’allora per la von Trotta un modo per affermare una sua visione femminile, adattando i testi da sceneggiare alla sua sensibilità personale, come avvenne sia per Baal che ad esempio per Colpo di grazia, un romanzo di Marguerite Youcenar in cui il ruolo di protagonista passa dal personaggio maschile alla sua partner Sophie, un’aristocratica stanca delle inutili guerre del Baltico che entra nella resistenza e, condannata, chiede di morire per mano dell’ufficiale che aveva amato. Un personaggio intenso che diede a Margarethe von Trotta l’occasione di una straordinaria performance. Nei film realizzati in seguito come regista la von Trotta non ha mai abbandonato questo suo punto di vista, creando personaggi femminili indimenticabili, come Christa Klages, che fa un colpo in banca per finanziare l’asilo di sua figlia, la terrorista Marianne e sua sorella Juliane che in Anni di Piombo (Leone d’oro a Venezia, 1981) mostrano da vicino il peso del potere su coloro che gli si ribellano, oppure donne della vita di tutti i giorni che trovano una risposta ai loro problemi nell’amicizia di altre donne (Lucida follia, 1982), e poi personaggi storici come Rosa Luxemburg, o del tutto anonimi, come la tenace moglie di un magistrato antimafia in un film girato in Italia, Il lungo silenzio (1993), che allude ai destini di Falcone e Borsellino. Questa ricca produzione, che non ha mai perso di vista il contesto socio/politico e le particolari storie femminili in esso ambientate, ha creato nella semplificazione dei mass media un’immagine stereotipata della regista, incapsulata nella definizione di ‘femminista di sinistra’, il cui cinema in Italia è stato in qualche modo ‘archiviato’ assieme a tutto l’armamentario datato degli anni ’80 del ‘900. Ma, con la determinazione e l’intelligenza che l’hanno sempre caratterizzata, con l’attenzione alla storia vista nella sua particolare, cristallina prospettiva, Margarethe von Trotta in questi anni ha continuato a lavorare, prevalentemente in Germania, sia per la TV che per il cinema, realizzando ad esempio nel 2000 le quattro puntate della riduzione del romanzo Avvenimenti di Uwe Johnson, sulla prima metà del ‘900 tedesco, che Carlo Lizzani definì «non uno sceneggiato ma quattro film in uno» all’unica proiezione romana al Goethe Institut. Venne poi Rosenstrasse ( 2003) su un episodio di resistenza femminile al nazismo, sconosciuto ai più e per giunta vittorioso, in cui le donne ariane berlinesi riuscirono a far liberare i mariti ebrei salvandoli dai campi. L’afflato e la solidarietà che man mano nascono e si propagano in questo gruppo di donne di ogni età ed estrazione sociale nasce da uno sguardo analitico ed impervio, che prende in esame una pagina sconosciuta della storia tedesca perché il pubblico possa capire, senza alcun pregiudizio ideologico, a che punto può arrivare la forza della ribellione collettiva e della lotta contro l’ingiustizia. È del 2009 il suo film Vision su Ildegarda von Bingen, una badessa che illumina il medioevo tedesco con i suoi studi sulla natura e la medicina, la sua musica e le sue doti di consigliera politica e spirituale, con la sua vitalità che trasforma il convento in un luogo d’arte, di cultura e di teatro, lontano dalle beghe del mondo, dal potere e da qualsiasi imposizione religiosa. Il film si apre con la grande rivelazione dell’anno 1000, in cui, contrariamente alle dicerie sulla fine del mondo, sorge il sole di un nuovo giorno che decreta il procedere inpertubabile della vita e del mondo. E a questa luce fanno eco le folgorazioni di Ildegarda, che la conducono in modo autonomo verso un’apertura alla vita inconcepibile per una monaca del suo tempo. È con sgomento infatti che lei scopre i danni delle autofustigazioni e dei cilici e la sua reazione immediata è quella di porre rimedio, tramite le erbe della prima medicina naturale e la potenza corroborante della musica, ai danni che una religione concepita come mortificazione, autodistruzione e sacrificio impone al fisico e si traduce in avvilimento morale. La fermezza di Ildegarda è sempre accompagnata però dal riconoscimento della sua debolezza femminile, ed anche lei come gli altri personaggi di von Trotta oscilla tra due poli: la sottomissione richiesta dalla regola e il desiderio di una vita appagante in cui ogni dono fisico ed intellettuale offerto dalla condizione umana possa essere espresso e trovare la sua compiutezza. Naturalmente anche in questo caso, come era avvenuto per le lettere di Rosa Luxemburg, la regista parte dalla lettura di tutti i documenti lasciati da Ildegarda, che chiede ad esempio l’elezione da parte delle consorelle al suo ruolo di madre badessa, rifiutando una consacrazione dall’alto. Piccola difformità dalla regola alla quale ne seguiranno altre, in un iter sempre guidato dalle sue ‘illuminazioni’ personali, lette in termini di ‘divinità’ per la cultura del tempo, ma in realtà frutto di un affiorare dell’inconscio che indica sempre una strada molto personale e soggettiva. Bisogna pensare anche che in quell’epoca il convento era il solo modo per molte donne di sottrarsi ai matrimoni combinati, ai rischi del parto, alla sostanziale dipendenza dai vincoli matrimoniali o ad un futuro incerto e succube nella prostituzione. Paradossalmente la vita di clausura poteva offrire un’autonomia e una prospettiva culturale che nel ‘mondo’ erano inaccessibili. Perciò qui la von Trotta rievoca un medioevo vivace e non privo di passioni la cui spiritualità viene ricostruita in base agli scritti e alle immagini originali, sfatando l’idea di un’epoca retriva e tenebrosa. Al centro di questo mondo c’è una donna che vuol mettere in pratica il suo modo di concepire il mondo e i rapporti umani, che fin da bambina ha un progetto tutto suo al quale non è disposta a rinunciare, e l’originalità della sua ‘visione’, appunto perché così personale e pervicace, acquista un’autorità anche presso coloro che detengono il potere, e che pendono dalle sue labbra per le loro scelte. Direi che, nella sua passione per la storia e per ciò che accade nel mondo, per il suo desiderio di ricostruire in immagini avvenimenti piccoli e grandi, Margarethe von Trotta occupa nel cinema un ruolo di ricercatrice critica, che cerca di guardare – e di mostrare – aspetti dell’agire umano che sfuggono ad ogni dogmatismo e sono invece legati alla particolarità dell’individuo e alla sua complessa sensibilità. E credo che nessuna attrice più di Barbara Sukowa sia stata capace, fin da Anni di piombo, di rendere così perfettamente e con tale profondità i vari e diversissimi personaggi dei suoi film, da Rosa Luxenburg a Ildegarda, sino all’ultima, controversa Hannah Arendt.
Nel novembre scorso il Festival fiorentino dedicato alle donne ha fatto un omaggio a Margarethe von Trotta proiettando questi tre film particolarmente legati alla Storia della Germania, che, attraverso singole biografie, raccontano tre momenti cruciali: il medioevo con la sua diffusa religiosità, gli inizi del ‘900 con l’utopia socialista e la fine della guerra con il mito dell’America. Momenti storici su cui è difficile non cadere nelle opinioni consolitate e nei luoghi comuni. Ma il pregio e l’unicità del cinema di von Trotta, il suo spessore che non si lascia dimenticare, risiede in una profondità espressa soprattutto nel carattere spesso simbolico delle sue immagini. A Firenze, durante la giornata di studio cui sono intervenuti i medievalisti Michela Pereira e Francesco Santi, la filosofa Elena Pulcini, la sociologa Debora Spini, la critica Daniela Turco, la stessa regista ha parlato ad esempio dell’uso e del significato di alcuni colori in Rosa Luxemburg, un film che inizia nel carcere dove Rosa è prigioniera con il contrasto della neve di un bianco abbagliante su cui si staglia la nera silhouette di Rosa seguita da un corvo, simbolo di saggezza. E poi il rosso che appare tre volte nel film: quando da bambina vuol assistere allo sbocciare di una rosa rossa per «vedere» la sua fioritura, quando durante una festa di capodanno viene annunciato il ‘900, il nuovo secolo della speranza sociale, e infine quando Rosa viene trascinata sul lungo tappeto rosso verso l’uscita dell’Hotel Eden, dove l’hanno sequestrata, dai soldati che la uccideranno. Von Trotta ha parlato di questa scia rossa come di un simbolo del mare di sangue che ha invaso il secolo con l’avvento del nazismo, delle sue persecuzioni e dell’ultima guerra, come se nella morte di Rosa, che era ebrea, fosse già in nuce ciò che poi sarebbe accaduto in Germania. Il film si conclude sulle acque nere del Landwehrkanal, dove i futuri nazisti gettano il suo corpo esanime. Il significato simbolico di questi colori va oltre la semplice ricostruzione storica e comunica direttamente con l’inconscio dello spettatore, lasciando un segno indelebile perché non filtrato dalla percezione razionale. Il simbolo è stato del resto la chiave di volta del cinema espressionista tedesco e la ragione dell’impronta potente che esso ha lasciato nell’immaginario cinematografico di tutti i tempi. E il contrasto di luci ed ombre ha sempre caratterizzato le storie e i personaggi del cinema di Margarethe von Trotta, le sue eroine dall’identità divisa i cui ritratti apparentemente realistici celano sempre un fondo in contraddizione con la superficie, che si traduce sul piano morale in quel dialogo interiore che presiede al giudizio e genera l’etica e la coscienza di sé. Hannah Arendt, nella sua attenta osservazione del criminale nazista Eichman durante il processo del ’37, constata appunto l’assoluta mancanza di elaborazione interiore in un soggetto senza incertezze e senza coscienza, incapace di valutare il proprio operato proprio perché privo di dialettica, una specie di automa capace solo di ripetere di aver eseguito degli ordini, scrollandosi di dosso qualsiasi responsabilità personale nell’eccidio, una rotellina efficiente nell’immenso ingranaggio dello sterminio. Di qui il famoso titolo La banalità del male, il libro più noto della Arendt, scritto proprio in base alle sue considerazioni del tutto personali su Eichman. Nel film sulla filosofa e giornalista von Trotta ha citato le immagini autentiche dell’interrogatorio ed ha costruito mirabilmente un film ancora una volta molto soggettivo, e purtroppo mal distribuito in Italia, che il pubblico ha reclamato con la sua presenza in lunghe code, per cui è stato necessario organizzare proiezioni non previste. Insignita quest’anno del premio FIPRESCI, Margarethe von Trotta sarà prossimamente al Bari Film Festival (27/28 marzo) dove il 27 verrà riproiettato dopo tanto tempo Anni di piombo a seguito di una sua lezione sul cinema.