Il giorno in cui riuscì a suicidarsi Anne Sexton indossava una pelliccia di sua madre. Prima di chiudersi in garage con il motore della macchina acceso, prima ancora di versarsi l’ultimo bicchiere di vodka, spogliò il proprio corpo per avvolgerlo con cura dentro quella vecchia pelliccia. Chissà se intendeva diventare sua madre o piuttosto tornare dentro di lei. In fondo le due cose non sembrano poi così diverse. «Una donna è sua madre» e «questo è l’essenziale», aveva scritto in una poesia che molti anni dopo Joyce Carol Oates avrebbe definito «terrificante». Una «donna non è sua madre, niente affatto», casomai è «la somma di tutte le influenze che ha subito», protesta Oates utilizzando quella poesia per riflettere sul rapporto non solo letterario tra madri e figlie. Tuttavia, confessa, i «versi secchi e dogmatici di Anne Sexton» le risuonano spesso nella testa; malgrado ogni più razionale certezza fanno eco ai suoi pensieri con un rintocco che non saprebbe dire se esprima «una maledizione o una benedizione», racchiuda «una spiegazione o un mistero». D’altra parte, aggiunge, nessuna parola ha lasciato sedimentare su di sé tante «idee convenzionali» come «madre». Nessuna parola secondo lei resiste nel linguaggio così inviolata e misteriosa.
Ha due anni Jennifer Clement quando negli Stati Uniti esce il volume che porterà Sexton al successo e che contiene appunto Casalinga, la «terrificante» poesia chiusa da quei due versi «secchi e dogmatici». Lei è nata nel 1960 a Greenwich, in Connecticut, ma a quell’epoca vive già a Città del Messico, dove il padre, ingegnere chimico oltre che attivista per i diritti umani, si è trasferito con il compito di impiantare nel paese il primo stabilimento di depurazione delle acque. La madre è una pittrice. Quando la poetessa Sexton muore nel garage della sua casa in Massachusetts, sbronza di vodka e impellicciata, la ragazza Clement frequenta ancora la scuola inglese di Città del Messico. Di lì a poco si sposterà nel Michigan per concludere gli studi superiori alla Cranbrook Kingswood School, laureandosi poi in letteratura all’Università di New York. È cresciuta parlando lo spagnolo e a Città del Messico deciderà più tardi di tornare a stabilirsi. Negli anni di New York frequenta Andy Warhol, Keith Haring, Madonna; soprattutto Jean-Michel Basquiat e la sua musa Suzanne Mallouk. «Aveva capelli biondissimi ed era una poetessa»: così Clement descrive se stessa giovane scrittrice guardandosi appunto con gli occhi di Suzanne in La vedova Basquiat, lo splendido memoir che segna nel 2000, dopo l’esordio del 1993 con le poesie di The Next Stranger, il suo debutto in prosa. Poche righe più avanti, mentre se ne stanno insieme a bere l’ennesimo cocktail in uno squallido bar sulla Seconda Strada, fa dire ancora a Suzanne: «Il bagno era talmente sporco. Non ce l’ho fatta. Ho dovuto pulirlo. Sono proprio come mia madre!».
Rintoccano i versi secchi di Anne Sexton, benedizione o maledizione che siano, anche nel più recente Gun love, pubblicato lo scorso anno negli Stati Uniti e ora uscito in italiano da Bompiani nella flessibile, armoniosa, limpida traduzione di Silvia Castoldi («Narratori Stranieri», pp. 259, € 17,00). Quarto romanzo di Jennifer Clement, finalista al National Book Award del 2018 e incluso dal «Library Journal» tra i dieci migliori libri di narrativa apparsi nell’annata, Gun love racconta in primo luogo la storia di una madre e di una figlia. «Mia madre» sono le due parole incipitarie del testo che l’autrice compone adottando la prima persona e lo sguardo in soggettiva dell’adolescente Pearl. Sua madre, che si chiama Margot, appartiene a una famiglia benestante ma è scappata da casa quando era ancora minorenne sulla Mercury rossa ricevuta in regalo dal padre. Oltre a Pearl appena nata portava con sé «una barca cinese d’avorio intagliata a mano», un «carillon in mogano intarsiato di conchiglie», un «bellissimo violino italiano», due piatti di porcellana di Limoges e due calici di cristallo Baccarat. Non era arrivata lontano; aveva parcheggiato la Mercury in un campo roulotte del centro della Florida pensando di fermarsi solo pochi giorni e poi ci era rimasta. Si era procurata un lavoro di inserviente nel vicino ospedale per reduci e aveva mandato Pearl a scuola fabbricando documenti falsi. Aveva addobbato la Mercury come fosse una dimora vera. Spesso si esercitava a suonare il pianoforte sul cruscotto. In fondo al bagagliaio, dentro una lunga scatola nera chiusa da un nastro giallo, c’era anche un vecchio «abito nuziale in chiffon di seta»: su quell’abito appartenuto a sua nonna, ultima reliquia di un passato a lei ignoto, relitto profumato e crepitante di una famiglia in assoluto naufragio, Pearl rimasta sola si sdraierà imprimendoselo addosso nella parte centrale del romanzo.
«Mia madre non mi aveva dato molto, non mi aveva mai comprato molte cose, però mi aveva riempita delle sue parole e delle sue canzoni. Ero un’enciclopedia delle chiacchiere e delle speranze di mia madre da giovane. L’avrei recitata dalla A alla Z. Le sue vocali e consonanti avrebbero continuato a cantare con me per sempre, per sempre, per sempre», si consola Pearl spiegando anche il significato del romanzo. Intorno a lei, lungo il confine tra Stati Uniti e Messico, scintillano armi di ogni tipo, si ammucchiano e si spostano, soprattutto sparano, facilmente uccidono. «Gli abiti da sposa e i lenzuoli funebri vengono dal cielo», insegna a Pearl scuotendola dai sogni l’amica Corazòn, «non puoi mai sapere quando ti indosseranno». Presidente del Pen Club internazionale dal 2015, impegnata da sempre a difendere l’impegno civile della letteratura, Jennifer Clement ha firmato con Gun Love un romanzo incardinato sul traffico illegale delle armi, sulla cultura della violenza, sulla disaffezione per la vita umana. Una sorta di speculare pendant, lo ha detto lei, del precedente Le ragazze rubate (2014), dedicato alla tratta delle donne rapite da ragazzine e scomparse per sempre. «Credo che la narrativa abbia un potere che il giornalismo non ha. La narrativa dà voce alle persone che stanno in silenzio o al silenzio sono costrette. La letteratura ha prodotto cambiamenti profondi nel mondo», ha dichiarato qualche anno fa in un’intervista. Eppure la potenza straordinaria di Gun Love, più che nella sua intenzione programmatica, sta nel legame ingenuo, tenero, stralunato che unisce Pearl a sua madre. Un legame così svagato e imprudente per Margot, benché fiducioso, che sembra esattamente definito dall’intraducibile ambiguità di quell’«amore armato» sigillata nel titolo del libro.
Per quanto anche Le ragazze rubate narri la storia in armi di una madre e una figlia, Clement raggiunge con Gun Love un equilibrio stregonesco tra la realtà violenta che intende rappresentare e la dimensione onirica, intima che è connaturata al suo stile. Costruita su riprese e richiami come una canzone, la sua pagina è intessuta di similitudini, sfide metaforiche, funambolismi verbali che corrono spesso lungo il bordo accidentato del kitsch, ma che salva la sua poetica sincerità emotiva. «La poesia è il luogo in cui trovo conforto e una risposta, la porta per entrare nella mia scrittura è la poesia», ha detto all’uscita del libro. Chissà se nell’ultima scena, mentre fila verso il proprio destino sdraiata sopra un ammasso tagliente di armi, la bianca Pearl troverà conforto nel poetico ricordo dell’abito da sposa lasciato dietro di sé. Quell’abito che nemmeno sua madre ha fatto in tempo a indossare.