«Quanto accaduto nelle ultime settimane fa immaginare un aggravamento dell’escalation militare nel prossimo futuro: i bombardamenti del campo profughi di Makhmour, del monte Shengal, delle montagne di Qandil sono sintomo di un attacco su larga scala per distruggere il confederalismo democratico».

Zagros Hiwa è portavoce del Kck (Unione delle Comunità del Kurdistan, organizzazione a cui aderiscono partiti, movimenti e unità di autodifesa del Kurdistan storico che si ispirano al confederalismo democratico).

Lo incontriamo a pochi giorni dal raid aereo su Makhmour da parte della Turchia, tre uccisi nel luogo che ha fatto da incubatrice del modello politico e sociale fondato sulla teorizzazione del leader del Pkk Abdullah Ocalan.

Il confederalismo democratico è sotto attacco dal Rojava al Bashur, da parte di forze diverse, regionali e locali. Qual è la situazione al momento?

Per comprenderla va analizzata su tre piani: internazionale, regionale e intra-curdo. In Medio Oriente dal 1991 è in corso quella che definirei una terza guerra mondiale, diversa dalle precedenti. È un conflitto per procura, in cui gli Stati hanno utilizzato forze terze, da Daesh a Boko Haram. Con l’occupazione da parte dell’Isis di ampie porzioni di Siria e Iraq, quegli Stati non sono stati in grado di fermare un prodotto della modernità capitalista. È emerso così un paradigma alternativo sia a Daesh che agli Stati falliti: la resistenza del Pkk, il solo a mostrare che lo Stato islamico poteva essere sconfitto. Mosul è caduta in un giorno, Kobane non è mai caduta in quattro mesi.

La sconfitta prima che militare è stata ideologica: un modello fondato su libertà delle donne, ecologismo e democrazia ha vinto un modello basato sulla schiavitù delle donne e sul settarismo. Per questo quella vittoria è stata contagiosa: dal Rojava il confederalismo democratico è arrivato a Shengal, in Iraq, e in Turchia con le pratiche del partito Hdp. E per questo è divenuta temibile: l’Occidente ha permesso l’invasione turca del Rojava per frenare un modello fondato sulla convivenza, a fronte della politica di divisione finora implementata in Medio Oriente.

E a livello intra-curdo?

Il nostro avversario in tal senso è il Kdp di Barzani. Il suo è un potere clanistico, familistico, capitalista. Il confronto è tra dinastia e democrazia, tra autoritarismo e autogestione. Per questo per Barzani il Pkk è una minaccia esistenziale.

Anche la vostra risposta si muove su questi tre piani?

A livello internazionale i nostri alleati nel mondo sono i movimenti di sinistra, internazionalisti, anticolonialisti, ambientalisti, movimenti repressi nei loro stessi paesi. Costruire con loro una rete è per noi una forma di resistenza. Sul piano regionale ci confrontiamo con gli Stati sfruttando le loro contraddizioni interne e costruendo solidarietà tra i popoli della regione. A livello intra-curdo, infine, la strategia è costruire un’alleanza di partiti e movimenti nei diversi paesi e una rete dei diversi settori della società, i giovani, i lavoratori, le donne, lontano dal sistema clanistico che governa la regione.

Un modello sotto attacco congiunto, dal Rojava a Qandil.

L’attacco è combinato perché il modello politico è lo stesso. Con il raid su Makhmour i governi di Erbil e Baghdad hanno legittimato la Turchia, mentre a Shengal hanno siglato un accordo bilaterale per cancellare l’autonomia. Shengal, Makhmour, Rojava hanno la prima difesa nella loro ideologia, fondamentale è dunque l’educazione e l’organizzazione a ogni livello, dal quartiere alla regione. Nella consapevolezza che i cuori della battaglia sono due: Imrali, l’isola-prigione dove la Turchia detiene Ocalan da più di 20 anni, e Qandil.

In montagna sono in corso da anni operazioni militari turche contro la leadership del Pkk, operazioni sostenute dalle potenze internazionali o con il silenzio o con la fornitura di armi. La Turchia usa armi non convenzionali contro Qandil e i peshmerga di Erbil per isolare le aree della guerriglia. Si concentra su Qandil perché se fa cadere la montagna eliminerà anche Rojava e Shengal, eliminerà il confederalismo democratico.

Sul piano organizzativo, come procede la costruzione del confederalismo?

Il nostro modello è in fieri. Fondamentale è l’organizzazione politica, economica, sociale e culturale, soprattutto in un periodo di caos come questo, di guerra. Non è del tutto implementato sia perché richiede tempo sia per gli attacchi continui. La formazione è costante ed è ovunque: basta l’ombra di un albero per ritrovarsi e discutere. Lo facciamo nelle assemblee, nelle accademie dell’autodifesa, nelle cooperative.

Veniamo da contesti che ci avevano alienato politicamente, per questo si deve lavorare sulla mentalità perché il confederalismo diventi concreto, attraverso i libri, il dibattito costante, l’autocritica, la pratica nei diversi aspetti della vita quotidiana. È un sistema che funziona più rapidamente alla periferia del capitalismo, come lo è il Kurdistan, e che ribalta le basi stesse del capitalismo, un sistema fondato sull’oppressione della donna e sul dominio sulla natura e sui popoli.