Era il 1531 quando Machiavelli dava alle stampe i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, opera in cui scriveva testualmente che «chi è nato in Italia e in Grecia ha motivo di biasimare i tempi suoi». Per una delle multiformi ironie della Storia, la situazione odierna, seppur in un contesto ovviamente mutato, non si discosta poi molto dalla considerazione essenziale del segretario fiorentino. Grecia e Italia si rivelano come due paesi dal passato tanto glorioso che, però, si trovano a vivere un presente che di quel passato non sa più che farsene.
Qualcuno aveva provato a mettere in guardia i cultori dell’ottimismo sciagurato e, come spesso è accaduto nella vicenda umana, si è trattato di scrittori e romanzieri piuttosto che saggisti o analisti politici. Che la festa fosse già finita, mentre alcuni ignavi si ostinavano a lanciare disgraziatamente delle danze macabre, nel caso della Grecia è stata a suo tempo la scrittrice e poetessa Ersi Sotiropoulos a dirlo. Tradotta in molte lingue, con dei trascorsi in Italia (dove ha studiato filosofia e antropologia a Firenze) e Francia, il 14 novembre sarà ospite di Umbria Libri a Perugia (presso il Complesso Monumentale San Pietro, nell’ambito di un incontro che vedrà la presenza anche di Caterina Carpinato e Filippo La Porta). L’abbiamo incontrata per farci raccontare del suo paese, la Grecia, ma anche dell’Europa, di un tempo caratterizzato da cambiamenti epocali, e del suo ultimo romanzo atteso in tutto il mondo (What about the Night), sulla figura suggestiva ed emozionante del poeta Costantino Kavafis.

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Ersi Sotiropoulos

Nel 2013 lei descriveva il suo paese specificando che c’era povertà ovunque: «La gente ha fame. I mendicanti non chiedono soldi, ma qualcosa da mangiare. Le persone frugano nella spazzatura e il centro di Atene è popolato da drogati, accattoni, emigranti». A distanza di due anni in cui politicamente è cambiato tutto, la realtà è ancora quella?
Oggi queste immagini di disastro umanitario sembrano più contenute, sia perché delle misure d’urgenza sono state prese, sia perché vi si sono sovrapposte altre immagini, più violente, di una tragedia più vasta. Il dramma dei profughi, questa massa di sradicati, barche strapiene che cercano di approdare nelle isole, annegati a qualche centinaio di metri dalla costa («il mar Egeo fiorito di cadaveri», come scriveva Eschilo). Ma la realtà del paese non è molto cambiata. Non ci sono ancora segni di ripresa, la disoccupazione galoppa. Con il referendum del 5 luglio si è vissuto un momento paradossale: votare in grande maggioranza No, che dopotutto significava Sì. Sì al memorandum, sì a misure insostenibili imposte che probabilmente aggraveranno la recessione. C’è un altro paradosso che riguarda l’economia sommersa, il denaro nero. Il governo Tsipras si è proposto di combattere la corruzione, il clientelismo, le bustarelle, piaghe che possiamo rintracciare in tempi lontani, fin dalla costituzione dello stato greco nell’Ottocento e che in passato sono state largamente alimentate dalle forze straniere interessate, ma anche recentemente, con gli scandali Siemens, Bayer etc. Ora quel poco che si muove nell’economia greca pare possibile grazie a questo denaro nero, non dichiarato, che circola ancora, meno di prima, ma che permette un minimo di transazioni e che offre qualche lavoro qua e là. Penso che la situazione ponga un vero dilemma per il governo. Sradicarlo senza essere in grado di introdurre validi incentivi di sviluppo significherebbe condannare il paese all’asfissia.

In qualche modo, aveva prefigurato la crisi in cui sarebbe piombata la Grecia. Per di più in un periodo di grandi entusiasmi, specialmente col romanzo «Il sentiero nascosto delle arance» (1999; l’ingresso della Grecia nella zona euro avvenne nel 2001, «ndr»), e con «Domare la bestia» (2001), i cui personaggi manifestavano un profondo disagio, un’ineffabile inquietudine. Profezia, la sua, o lucida analisi di una realtà che molti preferivano non vedere?
La festa sarebbe finita male, era ovvio per me. Il potere politico socialista di quel periodo ballava spensierato a braccetto con gli esponenti più in vista della plutocrazia. Era un ballo «nuovo» per la Grecia – dove il trauma della guerra civile non è completamente placato e lo spettro della discordia nazionale rimane in agguato (nel luglio scorso c’è mancato poco) – in un clima di euforia generale. Ho cercato di osservare scrivendo questa degenerazione, e quanto subalterno può diventare un governo socialista arrendendosi al fascino antico della ricchezza. In quelle circostanze l’iniziativa dei Giochi Olimpici rappresentò l’apoteosi del suicidio.

Nel suo paese, peraltro insieme ad altre nazioni europee, un partito neo-nazista come Alba dorata riceve molti voti anche a Kalavrita (Peloponneso) e Distomo (Beozia), luoghi in cui avvennero stermini da parte dei nazisti. La devastante crisi economica cancella anche la memoria o c’è dell’altro?
Mi pare che una delle più gravi conseguenze della crisi sia l’apatia. Il fatalismo. Quando le ultime scintille di combattività si spengono. La crisi diventa banale, rientra nella normalità. Alla confusione della società greca, insieme al devastante sentimento di essere stati doppiamente traditi, prima dai vari governi, poi dall’Europa, si è aggiunto un problema d’identità, una discrepanza che ci viene imposta quasi come strutturale dell’essere greco: un paese per decenni considerato come luogo di vacanze e basta, individuato in toto come popolo di ladri che non regge il confronto col proprio passato glorioso. È facile capire che si tratta di un terreno propizio per formazioni come Alba dorata, che si adopera a progettare un profilo apparentemente diverso da simili organizzazioni in Europa, più vicino alla gente, alle sofferenze quotidiane dei più deboli etc.

Racconta spesso di giovani le cui vite si smarriscono in un’ineluttabile attesa della catastrofe finale. Personaggi privati della speranza: è questo il «mood» che caratterizza le nuove generazioni, non solo greche?
Malgrado la crisi, la società è lanciata in avanti, in una corsa verso il nuovo, il prodotto appena uscito che è sicuramente migliore e desiderabile, oppure una nuova relazione, un altro amico su Facebook e così via. Il paesaggio cambia, quartieri interi vengono degradati o demoliti, lo studio viene considerata attività marginale, il posto di lavoro non è sicuro, i diritti sociali spazzati via. In questa mistificazione del nuovo, l’esperienza perde terreno e i giovani si trovano costretti a inventarsi: devono partire da zero essendo ridotti alla passività, senza sicurezze, davanti a un orizzonte che si restringe. Ci vuole più coraggio, più audacia di prima per riuscire a produrre anche una piccola crepa in questo bunker di neo-conservatorismo, per crearsi una propria identità.

Dalle sue storie emerge una Grecia che ha smarrito il contatto con la propria gloriosa tradizione, senza peraltro riuscire a trovare una nuova identità nel mondo uniformato dal predominio tecno-finanziario. Sembra essere anche la triste parabola dell’Europa, non trova?
Questa tradizione gloriosa, questo passato è talvolta un grande peso. Lo sentivo dagli anni della scuola come una bara sulle spalle. Penso tuttora lo stesso per identiche ragioni, in quanto offusca la Grecia moderna. Qualsiasi cosa sia successa dopo, nelle arti oppure nella musica o in poesia – e ci sono state delle cose importanti – viene messa in secondo piano, ignorata. Ormai questo patrimonio culturale appartiene all’umanità anche se in declino. La decadenza dell’Europa, di quella che consideriamo culla della civiltà, è un fatto. Nuovi mercati impongono le loro condizioni, mossi da sistemi di valori estranei ai nostri. L’Europa deve osare se non vuole diventare un parco di attrazioni un po’ raffinato.

Grecia e Italia rappresentano le due radici fondamentali dell’Europa e del mondo classico in genere. Mondo che la contemporaneità sembra voler rimuovere nella maniera più ingloriosa. Lei che ha studiato e vissuto molto in Italia, che immagine conserva del nostro paese, anche in confronto al suo?
Amo l’Italia, gli anni passati a Firenze e poi a Roma sono stati decisivi, delle amicizie forti sono nate lì. Anche se tra i due paesi ci sono affinità, e non solo culturali, trovo in Italia una leggerezza, una certa gioia di vivere che mi manca qui, dove si passa in blocco dal bianco al nero.

In questi giorni esce il suo nuovo romanzo dedicato alla figura controversa ma grandiosa del poeta Costantino Kavafis. Fra arte e poesia, vicende oniriche ed erotismo: cosa ha voluto dire in questa vicenda ambientata nella Parigi della Belle Epoque?
Quando lavoravo a Roma, ho curato una mostra su Costantino Kavafis a Palazzo Venezia, ed è stato allora che ho scoperto che del suo soggiorno parigino nel giugno 1897 si sapeva poco o nulla. E il 1897 presenta strane analogie con le vicende attuali. Annus horribilis per la Grecia, vinta e umiliata dopo una guerra di trenta giorni che avvilisce l’orgoglio nazionale, risorto con i Giochi olimpici dell’anno precedente: fallimento del paese messo sotto il controllo economico internazionale. Una situazione che durerà 81 anni, fino al 1978. E tuttavia annus mirabilis per Parigi, dove sta nascendo il modernismo, e fase determinante nella vita di Kavafis che – ancora giovane, indeciso, confuso – deve fare i conti con la sua omosessualità e le sue poesie, attraverso tentativi che fino a quel momento si rivelano piuttosto maldestri. C’è la Parigi del Caso Dreyfus, di Marcel Proust e di Toulouse-Lautrec, c’è l’ombra di un’Alessandria d’Egitto arretrata e cosmopolita. In quel contesto ho voluto seguire un sentiero straordinario, il making of the artist: come un grande poeta trova la sua voce, una voce irripetibile, come la passione erotica può trasformarsi in stimolo creativo.