Sul rapporto tra l’arte di Šostakovic e il regime staliniano sono stati versati fiumi d’inchiostro, fino a giungere alla contrapposizione fin troppo radicale tra chi ha voluto dipingere il compositore come un fiero avversario delle politiche culturali totalitarie, e dunque come un martire della tirannia, e chi ha inteso farne un musicista completamente asservito alle logiche di potere, in tutto e per tutto organico allo stalinismo. Nell’uno e nell’altro caso – paradigmatico quello di Solomon Volkov, che in un libro del 1979, fondato su testimonianze non verificate, dipinge il compositore russo come una sorta di battagliero anticomunista filo-occidentale – manca una considerazione critica della musica di Šostakovic: attraversarla interamente significa ridisegnare i contorni del Novecento musicale e ristabilire i rapporti tra elaborazione artistica e risposta sociale.

Assolve questo compito in modo esemplare l’ultimo libro di Piero Rattalino dedicato al compositore russo, dal titolo di per sé evocativo Šostakovic. Continuità nella musica, responsabilità nella tirannide (Zecchini editore, pp. 282, euro  25,00). Rattalino è da sempre un grandissimo divulgatore di cose musicali e uno straordinario affabulatore: la sua capacità di comunicare l’universo complesso della musica non trova eguali e la sua opera non può che definirsi – in un paese musicalmente ignorante come il nostro, animato da saltimbanchi da mercato e caratterizzato da un analfabetismo sonoro istituzionalmente amministrato e mantenuto – orientata a una sana pedagogia.

Nell’affrontare l’avventura musicale del compositore russo, Rattalino ripercorre con precisione storica le tappe significative del suo cammino artistico, senza mai tralasciare le questioni politiche sottese. Šostakovic, certo, pagò a caro prezzo alcune scelte espressive (ritenute «formalistiche» e dunque espressione della decadenza borghese) e l’inquisizione zdanovista non fu morbida nei suoi confronti. Ma la sua ricerca musicale, certifica Rattalino, fu sempre contraddistinta da una vocazione sociale, persino servile nei confronti di un ideale umanistico in cui il comunismo trovava asilo quale manifestazione politica più alta del cammino emancipativo di un popolo. E la conferma viene proprio dalla poetica musicale di Šostakovic, che elegge il rapporto con la tradizione come segno vivo della continuità storica e della responsabilità artistica nei confronti del pubblico, verso il quale, da compositore «civile», egli si riteneva garante di un indirizzo musicale istruttivo. Risiede in questa prospettiva umanistica l’eccentricità di Šostakovic rispetto a tanti compositori del Novecento e la sua lontananza da forme di bieco radicalismo avanguardista, che non coincide, secondo un discorso fin troppo volgare, con la semplice adozione di un linguaggio tonale. Anche per colpa di Adorno – e Rattalino non manca di sottolinearlo nelle pagine introduttive di questo bel libro – si è a lungo ritenuto l’oltranzismo linguistico di marca post-weberniana un marchio registrato (e un titolo di vanto) della sinistra culturale, da difendere all’eccesso, anche quando incomprensibilmente distante da un pubblico di per sé lontano dalle speculazioni musicali colte.

Una intera tradizione musicale è stata condannata al silenzio e alla mancata considerazione storiografica, per effetto di questa impostazione (si badi bene, spesso spalleggiata da un apparato politico ed extramusicale che andrebbe, gramscianamente, tenuto presente e studiato meglio), una tradizione che ha fatto della continuità e del rapporto positivo (e dunque antagonistico) con la Storia la sua ragione di poetica, senza pretendere rotture epistemologiche col passato o rifondazioni linguistiche. Parliamo di autori come Šostakovic, Britten, Prokofiev, Bartók, Hindemith, alla cui lezione, nonostante l’oblio, si sono formate nuove generazioni di compositori, estranei alle logiche di una incancrenita (quanto paradossale) avanguardia priva di senso (una avanguardia eterna, museale, istituzionalizzata), di cui si dovrà scrivere una storia criticamente avvertita, specie a sinistra.

Nel compositore russo, sottolinea Rattalino nel suo libro, la continuità con la tradizione è inestricabilmente legata alla missione umanistica: è viva in Šostakovic l’idea che forme e generi storicamente determinati come la sinfonia, il quartetto, la fuga possano essere rimessi in gioco (perché deposito storico di un percorso tecnico ed espressivo), al servizio di una comunicazione musicale franca e senza cedimenti, che a tali contenitori di senso attribuisce un messaggio di civiltà universale, di condivisione sociale, di appartenenza umana. Del disegno culturale totalitario Šostakovic condivideva anzitutto questa dimensione pedagogica e educativa, stringendo a sé un ideale etico che gli imponeva di intervenire attivamente con la propria musica sulla formazione di una individualità comunista, cioè universalmente realizzata nella consapevolezza dei propri mezzi espressivi e politici.

Di certo, il compositore russo dovette tapparsi il naso più volte di fronte all’arroganza dei burocrati di regime; e allo stesso modo, è impensabile non vedesse con i suoi occhi le manifestazioni di crudeltà della tirannide. Ciò non basta però a condannare la sua musica, che resta uno degli esempi più alti dell’arte sonora novecentesca, avvinghiata com’è al tempo in cui è sorta, eppure capace di proiettarsi universalmente oltre, verso un ideale estetico di comunità di certo senza paragoni nel radicalismo linguistico del secolo scorso, che, anzi, al confronto potrebbe dialetticamente rovesciarsi in una forma di gretto conservatorismo.