«Non ci ucciderete per la seconda volta» grida uno degli striscioni che i manifestanti hanno srotolato davanti al palazzo di giustizia sotto il controllo di un massiccio schieramento di polizia. Sono in circa 200 i familiari delle vittime dell’esplosione al porto e chiedono che al giudice Tareq Bitar non tocchi la sorte del suo predecessore Fadi Sawwan, rimosso a febbraio perché ritenuto coinvolto emotivamente in quanto casa sua era in uno dei quartieri più colpiti.

LUNEDÌ BITAR È STATO SOSPESO in seguito al «legittimo sospetto» di faziosità e cattiva condotta avanzato dall’ex ministro dell’Interno e oggi parlamentare Machnouk e dell’ex ministro dei Lavori pubblici Finianos. Un’accusa simile a quella che gli ex ministri Khalil e Zeiter avevano lanciato nei confronti di Sawwan. Lo stesso leader di Hezbollah era già intervenuto personalmente nel primo anniversario della catastrofe accusando Bitar di essere politicizzato.

MENTRE IL NEO-PREMIER Mikati e il presidente Aoun, il quale in un comunicato ha dichiarato che «i colpevoli devono essere puniti e gli innocenti scagionati», hanno per il momento optato per una conveniente neutralità formale, quella del giudice Bitar, che ha spiccato mandati di comparizione a destra e a manca e ha accusato decine di attuali ed ex politici e alte cariche di «negligenza criminale» a luglio, sembra essere una figura poco gradita alla politica libanese. I familiari delle vittime esigono giustizia e verità e a loro la sospensione del giudice è parsa l’ennesimo tentativo di depistaggio.
Legal Agenda e l’Osservatorio per i Diritti Umani hanno mosso accuse di ostruzione contro la classe politica, che ha rifiutato più volte l’istituzione di un tribunale internazionale. Questa settimana Bitar aveva in agenda una serie di interrogatori di personaggi politici particolarmente in vista e il tempismo della sospensione non dirime certo i sospetti.

LA TERRIBILE DEFLAGRAZIONE dovuta alle 2750 tonnellate di nitrato di ammonio stoccate dal 2014 nel capannone 12 del porto di Beirut – del cui pericolo era stata avvisata 6 volte la magistratura oltre che le alte cariche dello stato – aveva causato oltre 200 vittime, circa 7mila feriti e 300mila sfollati e aveva sventrato interi quartieri della capitale. A un anno e due mesi da quel 4 agosto del 2020 i passi avanti della giustizia sono stati minimi. La notizia della morte martedì di Ibrahim Harb, 35 anni, in coma dall’esplosione, ha inasprito ulteriormente gli animi e la sospensione di Bitar è apparsa ancora di più come l’ennesima beffa.

Intanto la crisi non dà tregua a un Libano che ha un urgente bisogno di un’immissione esterna di denaro. Dall’autunno 2019, quando la bolla finanziaria nella quale ha vissuto il paese per almeno 15 anni è scoppiata, l’inflazione continua ad aumentare e la svalutazione della lira rispetto al dollaro oscilla oggi tra il 120 e il 130%, dopo aver toccato il 160%.
In un paese dall’economia dall’impostazione neoliberista, fatta quasi interamente di terziario, e che importa l’80% dei beni, non si trovano generi di prima necessità e quando si trovano i prezzi sono proibitivi. Scarseggiano anche i medicinali più comuni e la crisi del carburante ha praticamente paralizzato il paese oltre che lasciarlo al buio perché non ce n’è abbastanza per produrre elettricità.

DUE GIORNI FA UNA SQUADRA ministeriale è stata formata per discutere con il Fondo Monetario Internazionale e il premier ha ribadito la necessità di riforme sociali che sbloccherebbero gli aiuti, tra le quali sarebbe auspicabile qualche intervento che aiuti a restituire al popolo la verità sui fatti del porto.