Suprema corte, verdetto supremo. La sospensione (prorogation) del parlamento di Boris Johnson è «illegale, nulla e priva di effetto». Nelle inequivoche parole di Brenda Hale, settantaquattrenne presidente della Corte suprema britannica, nonché baronessa: «La decisione di raccomandare a Sua Maestà di prorogare il parlamento è fuorilegge, perché ha avuto come effetto di frustrare o prevenire il parlamento dal realizzare le proprie funzioni costituzionali senza una ragionevole giustificazione».

Parole più pesanti dell’uranio, formulate dopo tre giorni di discussione quelle della baronessa Hale (che vuol dire arzilla/o, ma si pronuncia come hail, che significa, fra le altre cose, grandine). Pronunziate per tutti e undici i giudici del consesso, eccelsa scrematura del potere giudiziario dalla decisione insindacabile e irrevocabile, cui “è toccato” di rappezzare gli sbreghi della costituzione nazionale, vecchia coperta rosa dal tarlo Brexit.

DUNQUE OGGI SI TORNA sui banchi di Westminster, la vacanza coatta che era la prorogation è finita, dopo che ieri alcuni deputati già si facevano l’autoscatto nella verde aula vuota, cupi prima dell’ennesima battaglia.

Non «richiamo, ma ripresa», come ha sottolineato un gongolante John Bercow, lo speaker pasionario remain, dato che l’uso di recalling sarebbe inappropriato dopo questo verdetto. Tutto quello che Johnson, colto dall’ennesima grandinata nel mezzo di un summit Onu a New York dal quale stava tornando affannosamente, ha saputo esprimere è «robusto disaccordo» con la decisione della Corte. Incalzato perché ne aggiungesse il motivo, ha mobilitato tutta la propria ermeneutica in questa chiosa: «perché è sbagliato». Ma ha anche chinato il capo di fronte alla formidabile controffensiva oppostagli, accogliendola.

ORA È SOTTO UNA PRESSIONE immensa che lo vorrebbe dimissionario, mentre a Bruxelles si tira fuori quello buono. Oggi gli toccherà subire lo scrutinio parlamentare dei suoi inesistenti progressi nel dialogo con l’Ue.

Potrebbe cercare di sospendere ancora il parlamento ma legalmente – in questo caso per pochi giorni: inutile mossa. Se non darà le dimissioni, com’è lecito prevedere – è più facile che lui e Dominic Cummings si asserraglino a Downing Street – ci sarà verosimilmente un voto di sfiducia e, passato quello, due settimane di tempo perché qualche altro deputato possa formare un governo. Altrimenti le solite elezioni, per le quali Corbyn è pronto da mesi. Sul quando è tutto ancora da vedersi, mentre il 31 ottobre si avvicina.

Tenendo al congresso Labour a Brighton un discorso anticipato a ieri pomeriggio per permettergli di essere presente alla riapertura dei lavori oggi a Westminster (anche se non ci sarà Prime Minister’s Questions), un raggiante Jeremy lo invitava a levarsi di torno «e diventare il premier dal mandato più breve della storia», con la platea che gli rispondeva entusiasta intonando «Via Johnson». Corbyn ha nuovamente dimostrato il buonsenso disarmante del suo cerchiobottismo, in vista di una campagna elettorale schierata non solo su Brexit, ma sul futuro sociale della Gran Bretagna. «Noi non siamo né per il 52%, né per il 48%: noi siamo per il 99%!» ha detto, mentre la sala lo sommergeva di plauso. Né Guelfi, né Ghibellini, insomma: Fiorentini. Se l’estremismo è mai stata la malattia infantile del comunismo, il socialista Corbyn non ne soffre.

E così, con il suo dolce peso, il muro di mattoni del verdetto della Corte suprema è puntualmente crollato addosso a Boris Johnson.

CON SEI SCONFITTE nella sua settimana d’esordio, in minoranza di quarantaquattro voti e ora giudicato fuorilegge dalla massima autorità giuridica, l’incubo Brexit targato Johnson fa sembrare quello di Theresa May una gita scolastica. Non gli resta altro, nell’immediato, che cercare di svicolare legalmente dall’obbligo di chiedere un’estensione alla scadenza Brexit impostogli due settimane fa dallo stesso parlamento. Nel lungo – si fa per dire – periodo giocherà la carta elezioni, dipingendosi come il paladino della volontà popolare, disattesa, secondo vulgata, dai poteri forti. È lì già lo aspetta la cicuta del patto elettorale con Nigel Farage.