Mose e Mosè: tutta una questione di accenti. Lo aveva inteso bene Cesare De Michelis quando con ironia, almeno così si narra, ribattezzò il Modulo Sperimentale Elettromeccanico (il Mose per l’appunto, quello costato quasi 6 miliardi di euro per non servire a nulla) come il barbuto profeta del Vecchio Testamento, colui che divise le acque del Mar Rosso per salvare l’eletto popolo d’Israele dalla tirannide del faraone d’Egitto; lo stesso che sul Sinai ricevette le tavole della legge, scritta sulla dura pietra direttamente dalla divinità per regolare la vita degli uomini, o meglio tra uomo e uomo. Un episodio, quest’ultimo, che a Venezia è ben rappresentato anche in scultura, come si vede sul seicentesco altar maggiore della chiesa dedicata a Mosè, in città nota, per via di dialetto, come San Moisè.
Ed è proprio in questo luogo, la cui facciata barocca guarda Calle XXII marzo, cioè la zona in cui si concentrano gran parte delle appariscenti boutique monomarca – una delle quali si fa addirittura promotrice del barocco siciliano, interpretandolo, bisogna ammetterlo, in modo tristissimo e trashissimo –, che la sera del 12 novembre scorso è stata scattata una delle tante immagini simbolo del disastro che ha colpito Venezia.
In quella foto si vede l’interno di San Moisè letteralmente allagato e un Crocifisso ligneo annegare nell’acqua, annaspare aggredito dalla marea che in quella notte ha quasi raggiunto i 190 centimetri del 1966: l’annuns horribilis delle fatidiche inondazioni ed esondazioni che si ritenevano, a torto, insuperabili. È uno scatto che molto dice e molto racconta. Ci obbliga a pensare nuovamente alla Venezia delle opere d’arte.
Ma oltre San Marco, emblema mediatico di questa emergenza (e quanto ci hanno marciato i giornalisti in diretta dalla Piazza, mentre microfono alla mano e telecamera lì puntata commentavano i fiotti d’acqua sgorgare dai tombini), molti sono i luoghi che hanno sofferto, che sono stati aggrediti dai 187 centimetri d’acqua malsana che nel buio di quella notte ha invaso l’intera città. E penso alla chiesa di San Giovanni Evangelista, con i suoi dossali lignei tardo-cinquecenteschi in gran parte sommersi e che ora dovranno essere sottoposti a restauro quanto prima, come mi ha informato al telefono Guido Jaccarino, direttore di Uni.S.Ve. Penso a quel gioiello che è Sant’Andrea della Zirada, un edificio magico, una chiesa chiusa da anni ai confini occidentali della città, schiacciata tra Piazzale Roma, alle sue spalle, e l’orripilante People Mover, che le è stato costruito accanto, su uno dei suoi due fianchi – ma come è stato possibile?
Chissà come starà il Cristo deposto di Giusto Le Court lì conservato, una delle sue ultime opere, collocato in basso, sotto la mensa dell’altare da lui stesso ideato e realizzato nel 1679. È una scultura commovente, in marmo di Carrara, di una qualità altissima; e la pelle, la sua pelle: ora rischia di essere compromessa dai sali dell’acqua, per non parlare di tutti quegli elementi inquinanti – grazie Zona Industriale, grazie Grandi Navi – in essa presenti. Il suo stato andrà verificato quanto prima, velocemente.
A Ca’ d’Oro, uno dei musei della città che tutti dovrebbero visitare (per la sua posizione, per l’edificio in cui si trova, per le opere in esso raccolte: basti il San Sebastiano di Mantegna, con quel suo perenne ammonimento: «Nihil nisi divinum stabile est. Cætera fumus», «Niente al di fuori del divino è stabile. Il resto è fumo»), gli intarsi marmorei del pavimento della corte d’onore soffrono e continuano a soffrire, e con loro anche la vera da pozzo in rosso di Verona realizzata da Bartolomeo Buon per Marino Contarini fra il 1427 e il 1428. In quella sera la marea l’ha sommersa totalmente. Prevenire è meglio che curare, si usa dire. Spostiamolo dunque all’interno. È ora, è il momento. Claudia Cremonini, la direttrice del Museo, lo sa bene; è da anni che ne parla.
Nella Venezia altra, quella che poco si conosce e pochi conoscono, e di cui pochi si interessano, sono effettivamente le chiese e le Scuole Grandi e Piccole ad aver subito i danni più ingenti. L’elenco sarebbe lungo e la loro conta, quella minuziosa e non quella a spanne, ancora si deve fare. E non è semplice, perché i problemi strutturali si manifesteranno più avanti, quando i sali piano piano agiranno e l’umidità, lentamente, dal basso salirà verso l’alto, scrostando muri, minacciando tele, divorando stucchi, marmi e legni.
Torniamo a San Moisè e al suo Crocifisso, quello immerso nelle acque insieme alla sua preziosa croce incrostata di tartaruga e madre perla. Si tratta di un’opera d’arte importante, essendo una delle rare testimonianze documentate dell’attività di intagliatore dello scultore Giuseppe Torretti – «l’ingegnosissimo Torretti scultore», com’è definito nel documento del 1711 pubblicato nel 2009 da Favilla e Rugolo –, tra i massimi artisti del Settecento veneziano, il cui nipote, Giuseppe Bernardi, fu tra i maestri del giovanissimo Canova. Dopo quella drammatica sera la scultura si trova ora ricoverata, sdraiata come uno sfollato su un letto di fortuna, sulla mensa dell’altar maggiore, con il viso rivolto verso l’alto. Sarà Venetian Heritage, fondazione italo-statunitense tra le più attive nella salvaguardia del patrimonio artistico veneziano, che se ne farà quasi certamente carico, finanziando le cure.
Ora, però, i riflettori si stanno spegnendo, e Venezia torna alla normalità. La sua normalità, che di normale non ha nulla. In questi giorni molti l’hanno ripetuto, perché vero: la Serenissima Repubblica ha sempre vissuto con l’acqua alta. Sì, è così: ma essa sapeva prendersi cura della laguna. Addirittura, quello tra le maree e la città era considerato alla stregua di un rapporto amoroso. Marco Boschini nel poemetto La regata unico cimento maritimo a l’uso venezian, pubblicato nel 1670, così lo descrive: «Do volte l’Adriatico a basar / Va col flusso e reflusso le so sponde / Ogni dì, con le chiare e liquid’onde / Come rezina del istesso mar».
Ne Il Foglio di sabato 23 novembre, Francesco Cataluccio ha dedicato un lungo scritto a Venezia. A un certo punto egli cita Fondamenta degli incurabili, il famoso libro di Brodskij uscito nel 1991 per Adelphi. Il soggiorno del poeta russo venne finanziato, come ricorda Cataluccio, «dal “Consorzio Venezia Nuova”, quello che ha avuto a che fare con i pasticci del Mose: chiaro esempio di eterogenesi dei fini!». Strana coincidenza, nel 1990 lo stesso Consorzio pubblicò la traduzione italiana di una scelta di articoli del grande storico dell’arte André Chastel apparsi, tra il 1953 e il 1988, su Le Monde. In uno di questi, del luglio 1969 e intitolato La morte di Venezia, scriveva: «Bisogna semplicemente ricordare che la salvezza di Venezia è il grande banco di prova del ventesimo secolo; è evidente allora che tutte le operazioni di tutela intelligente del territorio che si impongono oggi nel mondo avranno senso solo se “il caso Venezia” verrà affrontato con tutta l’ampiezza e l’immaginazione necessarie». Anche la nuova presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in questi giorni ha detto qualcosa del genere: riferito al secolo successivo, il nostro, il ventunesimo…