Solo dal rigore teutonico potevamo attenderci un’operazione come quella battezzata «SOSBrutalism». Si tratta di una ricognizione della Fondazione Wüstenrot di Ludwigsburg, originale quanto capillare e planetaria, intorno all’architettura in calcestruzzo dagli anni sessanta agli Ottanta, rivolta non solo alla conoscenza, ma soprattutto alla tutela e difesa. Un progetto ambizioso ed enciclopedico, ben riuscito come si può constatare percorrendo le chiare e algide sale disegnate da Ungers del Deutsches Architekturmuseum di Francoforte, dove, fino al 2 aprile, è illustrata l’ultima fase di un lavoro iniziato a Berlino nel 2012 con un convegno nel quale si discusse sul valore storico e culturale del Brutalism World e proseguito nel 2015 con una campagna di salvataggio in rete (www.sosbrutalism.org) per una serie di edifici brutalisti minacciati da demolizioni o radicali trasformazioni.
Una piattaforma in progress
Gli atti del convegno compongono ora il volume allegato al catalogo della mostra (Park Books), mentre nel database del sito sono censite quasi mille costruzioni tra quelle storicamente alle origini di una delle correnti più vitali dell’architettura del dopoguerra, e quelle considerate anticipatrici ed epigonali. Ognuno degli edifici registrati è classificato secondo quattro livelli di rischio o di stato di conservazione: già demolito, protetto, in uso o minacciato. Si è giunti, così, ad avere un’affidabile red list, che nei prossimi anni di certo si allungherà con altre segnalazioni e la partecipazione di nuovi autori oltre i cento già coinvolti. La mappa, quindi, è una piattaforma in progress, e sarebbe lodevole se qualche nostra istituzione culturale o accademica vi partecipasse date le opere brutaliste che contiamo (oltre il sempre citato Vittoriano Viganò dell’Istituto Marchiodi), così bisognose anch’esse di tutela. Per adesso l’assenza italiana risulta segno del nostro totale disinteresse sull’argomento.
L’evento francofortese, tuttavia, non difetta d’inclusione, anzi il contrario: la sua finalità è sensibilizzare l’opinione pubblica in modo più accurato di quanto non sia accaduto finora. Per comprendere, però, pienamente il significato del Brutalismo occorre domandarsi perché oggi il fenomeno risulti così attraente. L’interrogativo, posto da Oliver Elser, curatore dell’esposizione con Philip Kurz e Peter Cachola Schmal, è lo stesso che si pose all’attenzione di storici e critici alla nascita del movimento. Rispetto a ieri, però, la novità è che è stata ormai accolta una concezione di architettura brutalista più comprensiva e generica rispetto a quella dal perimetro geografico e temporale ristretto data da Reyner Banham nel 1955 sulla rivista «The Architectural Review» e in modo più esaustivo nel 1966 con il saggio The New Brutalism. Il critico inglese spiegò in quelle pagine i caratteri estetici ed etici della nuova corrente e le differenze con le coeve prove dei maestri del Movimento Moderno, allora ancora tutti in vita: una giovane e radicale generazione di architetti – i coniugi Alison e Peter Smithson, James Sterling con James Gowan, William Howell e diversi altri – intese creare in Gran Bretagna negli anni cinquanta un movimento che avrebbe bandito monumentalità, retorica e raffinati estetismi, in altri termini il superfluo inteso come il socialmente non necessario. Banham, caustico, scrisse che i caratteri del movimento erano espressi «dalla sua brutalità, il suo non-mi-interessa, la sua maleducazione»: non avrebbe mai pensato, allora, che da quel primo nucleo di architetture britanniche, tolto il suffisso new (come gli suggerì lo storico dell’arte Wolfgang Pehnt), il concetto di Brutalismo si sarebbe adattato ad accogliere nel suo seno un numero sorprendente di «amati mostri» costruiti in cemento nel dopoguerra. La traiettoria centrifuga che origina dalla corrente brutalista britannica – dal parallelepipedo miesiano degli Smithson della Scuola secondaria di Hunstanton(1949-’54) alla Facoltà di Ingegneria a Leicester (1959-’63) di Stirling e Gowan… – si è sviluppata nel mondo come testimoniano i centoventi esempi raccontati in mostra.
Linee dure e graffiate
Quella «magica ricetta», quale la prefigurò Zevi, è risultata «contagiosissima, perché interpretabile in modi polivalenti». Il Brutalismo da subito si qualificò come una nuova visione del modernismo, si imbevve di idee radicali e progressiste, volgendosi verso linee dure, graffiate, senza ornamenti, mentre sul piano delle teorie urbane il suo ethos sarà una severa e incondizionata critica alla città contemporanea. È probabile che le ragioni della sua attuale forza di attrazione riguardi anche quest’ultima questione, ma la mostra la pone a margine concentrandosi principalmente sulla valenza iconica e dissonante dell’oggetto architettonico. Occorre però fare cenno al fatto che la messa in discussione dei principi della «città funzionale», eredità ideologica dei CIAM (Congrès Internationaux d’Architecture Moderne), la si deve sempre a quel manipolo di architetti, che poi formeranno il gruppo Team X: oltre agli Smithson, Aldo van Eyck, Jacob Bakema, Giancarlo De Carlo, Shadrach Woods. All’appuntamento del 1953 a Aix-en-Provence (IX CIAM), ma soprattutto in quello di Dubrovnik del 1956, essi presero le distanze dalla concezione dogmatica e universalistica di città fuoriuscita dalle centouno preposizioni della Carta di Atene, decretandone il fallimento. Fu un’azione coraggiosa alla ricerca dei «fondamenti di un nuovo inizio», che presupponeva una diversa organizzazione della casa e delle sue relazioni con la strada. Ne nacquero esemplari modelli di insediamento residenziale. La notizia di cronaca, però, della distruzione del complesso londinese di edilizia popolare di Robin Hood Garden (1972) degli Smithson è il sintomo di come alcuni aspetti della vita urbana siano, oggi come allora, gli stessi: da un lato le forze neoliberiste e dall’altro la resistenza di chi intende opporvisi difendendo uno spazio della convivenza collettiva tra i più progressisti, ma troppo fragile per resistere alla potenza degli interessi immobiliari.
Dodici areee geografiche
L’imponente materiale raccolto, suddiviso in dodici aree geografiche – dall’Africa all’Oceania, con l’Europa ripartita in quattro macroregioni e una trattazione a sé per Gran Bretagna e Germania, l’Asia inclusiva della Russia e dell’Estremo Oriente, e le due Americhe – testimonia una sorprendente quantità di episodi, in parte rimasti misconosciuti alla storiografia ufficiale, in parte dimenticati dietro le narrazioni mainstream del Moderno, o occlusi alla conoscenza com’è stato per i paesi dell’ex blocco sovietico. Tra le molteplici vicende e personalità del brutalism world, i curatori della mostra hanno selezionato sei case-studies, ognuno dei quali tratta un particolare aspetto della tendenza. Pehnt si concentra sulle «tracce viventi» dell’edilizia ecclesiastica enumerando una lunga serie di architetture tra «povertà e trionfalismo»: dal Convento di Sainte-Marie de La Tourette a Eveux (1956-’60) di Le Corbusier, alla Cappella della Riconciliazione nel campo di concentramento di Dachau (1964-’67) di Helmut Striffler, passando per il monolite della Chiesa di Sainte-Bernadette du Banlay a Nevers (1963-’66) di Claude Parent e Paul Virilio. Mentre Elain Harwood affronta il tema dell’edilizia universitaria inglese: uno dei campi privilegiati, insieme a quello dell’edilizia residenziale pubblica, degli architetti brutalisti.
La vitalità della lezione brutalista troverà ampio consenso anche fuori d’Europa, come dimostrano i casi di Agadir in Marocco, dove nel 1960 si afferma l’azione del Groupe d’Architectes Modernes Marocains (GAMMA), e del Giappone, con le decine di centri civici costruiti all’insegna della sincerità tettonica del bèton brut. Una vicenda a sé rappresenta l’esperimento nippo-jugoslavo di Skopje. Le architetture civili nate dalla collaborazione tra architetti giapponesi (Tange, Isozaki), macedoni (Kostantinov, Todorovski) e sloveni (Mušich) dopo il terremoto del 1963 rischiano di essere oggi annichilite se dovesse estendersi l’uso del rivestimento neoclassico con il quale si sta procedendo a ricoprirne alcuni, come il Tribunale Amministrativo. A Skopje si può misurare la distanza rispetto a un caso di salvaguardia esemplare dell’«altra modernità» brutalista come quello di New Haven, ultimo degli esempi indagati: a dimostrazione di quanto sia ancora lungo il cammino che ha davanti a sé il progetto «SOSBrutalism».