La foresta, come luogo simbolico che incarna la forza fisica e quella spirituale, è certamente uno dei temi che conduce più immediatamente al lavoro di Jems Koko Bi (Sinfra 1966, vive e lavora tra Essen, Germania e Abidjan), tra gli artisti africani contemporanei più conosciuti, presente anche nella collettiva «Costa d’Avorio: Identità e vitalità dell’arte contemporanea» (a cura di Massimo Scaringella) al Mattatoio di Roma (fino al 22 luglio). Koko Bi costruisce un immaginario che è ancestrale e, in parte, inconscio, scolpendo grandi figure direttamente nei tronchi di quercia (come in Diaspora, 2013), pioppo o altri legni: emblematici totem della nostra epoca. Anche gli altri artisti, ognuno con la propria specificità – diversi per età, formazione, linguaggio – Frédéric Bruly Bouabré, Joana Choumali, Ananias Léki Dago, Ernest Dükü, Jacobleu, Mohamed Keita, Mathilde Moreau, Kra N’Guessan, Virginia Ryan, Jacques Samir Stenka, Joachim K. Silué, Ouattara Watts – esplorano in una chiave per lo più metaforica il rapporto fortissimo con la terra, le origini, le radici, guardando alle contraddizioni del presente.

FORESTE

Ideata dall’Ambasciata della Repubblica della Costa d’Avorio in Italia sulla scia del riscontro avuto dal padiglione nazionale alla 57. Biennale d’Arte di Venezia, questa mostra è anche una piattaforma di dialogo e di presentazione della I Biennale d’Arte di Abidjan, in programma per il prossimo autunno. Un progetto a cui stanno lavorando Jems Koko Bi e Joachim K. Silué e che vedrà il coinvolgimento di artisti internazionali invitati a lavorare nelle foreste su cui si sviluppa la città di Abidjan.

JOACHIM K. SILUÉ

Il legno è proprio tra i materiali presenti nelle opere di Joachim K. Silué (Abidjan 1972, vive e lavora a Modena), autodidatta che da bambino si costruiva i giocattoli da sé. I suoi assemblaggi, attraversati da una vena provocatoria, sono la proiezione di una profonda rabbia nei confronti dell’autorità (ovunque nel mondo), ma anche l’espressione istintiva di quel potenziale creativo che l’artista andava sperimentando fin dall’infanzia. In particolare il grande trono vuoto (Testa e croce, 2018), in cui impiega terre, pigmento nero, chiodi, legno, corda e specchi riflette l’idea di un potere che non mantiene le promesse, vanesio, autoreferenziale, assente. Un’analoga visione critica che, tuttavia, non rinuncia a cogliere gli aspetti di autentica bellezza che si possono trovare anche nei quartieri più poveri di Abidjan è quella di Jacobleu (Danané 1972, vive e lavora ad Abidjan) che parte da immagini fotografiche di carattere documentario, manipolandole digitalmente per esprimere la sua idea di mutevolezza.

MOHAMED KEITA

Al contrario, lo sguardo di Mohamed Keita (Mahapleu 1993, vive e lavora a Roma) rimane legato ad un’impostazione più tradizionale interpretata con il coinvolgimento diretto. Happiness and sadness (2013-2018) è in parte la storia del fotografo che a 14 anni lascia il suo paese (c’era la guerra civile) e da solo affronta un lunghissimo viaggio che, attraverso Guinea, Mali, Algeria, Sahara, Libia e Malta, lo porta tre anni dopo in Italia. La fotografia, per lui, è anche uno strumento di riscatto. Un modo per osservare, conoscere e poi restituire ciò che la vita gli ha dato. Da Roma Keita torna spesso in Mali, dove ha aperto un laboratorio fotografico per bambini di strada. La capitale del Mali è anche lo scenario per Ananias Leki Dago (Abidjan 1970, vive e lavora tra Parigi e Abidjan) che nei suoi scatti in bianco e nero della serie Bamako Crosses (2006-2012) è partito da quello spazio urbano. Alcuni dettagli isolati presentano assonanze all’iconografia cristiana, ad esempio quelle che sembrano croci portate dagli uomini come in una processione del venerdì santo. Ma la realtà può essere ambigua: quelle croci sono, piuttosto, i manici dei carretti usati per trasportare le mercanzie e che, a fine giornata, vengono parcheggiati nei depositi con il manico piegato verso l’alto. Per il fotografo è ironico anche il fatto che, in Mali, la maggioranza della popolazione professi la fede musulmana. Una certa ambivalenza attraversa anche le seduttive opere fotografiche di Joana Choumali (1974, vive e lavora a Abidjan) con la tela ricamata con i fili di cotone colorati e i dipinti di Jacques Samir Stenka (Bingerville 1945, vive e lavora ad Abidjan) e, in una chiave più autobiografica, i collage di Kra N’Guessan (Daoukro 1954, vive e lavora a Chevry-Cossigny) e di Mathilde Moreau (Grand Bassam 1958, vive e lavora ad Abidjan), pulsioni che partono dal profondo. Tre grandi interpreti che raccontano la contemporaneità dell’Africa in una maniera viscerale connessa alla simbologia cosmica, numerica, religiosa sono, in particolare, Ernest Dükü (Bouaké 1958, vive e lavora tra Parigi e Abidjan) e Ouattara Watts (Abidjan 1957, vive e lavora a New York), entrambi grandi ammiratori del «vate» Frédéric Bruly Bouabré (Zéprégüuhé 1923-Abidjan 2014).

ERNEST DÜKÜ

Nei disegni su carta della serie Akiineh @ Full Pintadattitude (2012) e O Bee One @ Pik Assobaka Odioka Shuffle (2014), Ernest Dükü scrive la storia dell’Africa con l’inchiostro, ricorrendo a simboli universali: le tre grandi religioni egiziana (la creazione), cristiana e musulmana con la mescolanza di numeri (9, 3, 5) associati rispettivamente ai colori giallo, rosso e verde, nonché alla croce di Amon, alla croce cristiana e alla mezzaluna dell’Islam. Nelle sue «pagine» i simboli ashanti, il tao, il dna, il piede e gli amuleti vari raccontano le diversità – complementari – di una cultura antica dove non c’è una sola verità. Anche i grandi dipinti di Ouattara sono universi complessi in cui le citazioni numeriche sono partizioni musicali: la musicalità che l’artista assorbe frequentando la scena newyorkese, dove si trasferisce su invito di Jean-Michel Basquiat che aveva conosciuto nel 1988 a Parigi.

MAMI WATA

Intorno alla figura archetipica della «Mami Wata» (deformazione dell’inglese Mammy Water con cui i colonizzatori chiamavano le immagini di una divinità della mitologia Yoruba rappresentata come sirena), infine, è incentrato il dialogo tra la serie di disegni («cartes postales») di Frédéric Bruly Bouabré, Sette sirene di sette colori (2013) e l’evocativa installazione Surfacing (2015) di Virginia Ryan (Canberra, Australia1956, vive e lavora a Trevi), unica artista non ivoriana, ma con un rapporto privilegiato con la Costa d’Avorio dove ha vissuto per alcuni anni.

SIRENE

«Mami Wata» è la dea dell’acqua, è simbolo del femminile e, come nella mitologia occidentale, è una creatura ibrida, metà donna e metà pesce, capace di ammaliare con il suo canto melodioso e di portare alla perdizione gli umani. Incarna anche la paura per l’incognito, Queste sirene inanimate, che sembrano balene spiaggiate, viaggiano nella fantasia così come nelle geografie della contemporaneità, veicolando anche questioni sociali legate alla globalizzazione. Infatti, sono rivestite di ciocche di capelli finti intrecciati che Virginia Ryan ha acquistato nel mercato di Abidjan: prodotti «made in China» realizzati apposta per il mercato africano.