Sorry We Missed You è il messaggio che i corrieri lasciano quando arrivano, suonano e non c’è nessuno: «Ci spiace, non ti abbiamo trovato» – o meglio «Ti abbiamo mancato» quasi che il destinatario della consegna fosse un target, un bersaglio, lo score di quella gara a cui sono costretti infinite volte al giorno nell’era del commercio digitale coloro che arrivano alla sua porta. Sono anonimi, come i riders che portano la pizza o le cene indiane e giapponesi sfrecciando a velocità folle sulle bici, una sfida mortale, per accumulare corse, perciò guadagno ma soprattutto «punteggio»: essere in alto, tra i primi sulle tabelle di marcia, non «bucare» il planning a costo di ammazzarsi. E poco importa, appunto, delle conseguenze, di ciò che si rischia, che ci si può ammalare, stressare, che si può cadere, «scoppiare», perdere di vista la propria esistenza: si deve correre – quasi fossimo in Hunger Games – il resto, diritti, protezione del lavoro, malattia, orari sembra appartenere a un’epoca mitologica e felice, forse una favola.

KEN LOACH due volte Palma d’oro a Cannes  (con Il vento che accarezza l’erba, 2006 e Io, Daniel Blake, 2017) parla di questo in Sorry We Missed You, il suo nuovo film, che arriva in sala il 2 gennaio ed è uno di quei titoli da vedere per capire dove viviamo: senza retorica, con la semplicità diretta di chi la realtà e il suo tempo la sa osservare e cogliere anche al di là del soggetto attraverso il quale la restituisce. A che punto siamo? sembra chiedersi (e chiederci) Loach mentre ci mostra le esistenze di una famiglia come tante tra quelle che oggi non ce la fanno a sopravvivere con l’affitto da pagare, dei figli e senza le «garanzie» – seppure sempre più blande del «posto fisso». Lo hanno perso, o non lo hanno mai avuto e nella società attuale, governata dall’obbligo di «reinventare» il concetto stesso di lavoro, e insieme della vita, devono afferrare ciò che arriva. Ma questa invenzione – del lavoro, della vita – non è quasi mai sinonimo di creatività, o di una maggiore libertà, nella maggior parte dei casi si rivela ricatto, violenza, un massacro quotidiano.

È QUANTO succede a Ricky (Kris Hitchen), il protagonista del film scritto da Loach insieme all’abituale «complice» Paul Laverty, che prova a uscire dai debiti accumulati con un fallimento decidendo di lavorare per una società che consegna pacchi. La moglie, Abby (Debbie Honeywood) si occupa di anziani e malati gravi a domicilio, li lava, li veste, li nutre, fa fronte alle loro crisi di panico o di follia, a quel vuoto di famiglie che li hanno abbandonati. Vaga tutto il giorno da una casa all’altra, i figli li incrocia se va bene la sera, ricordandogli al telefono i compiti, il cibo da scaldare nel forno; hanno sedici anni il ragazzo, e la disperazione dell’adolescenza rabbiosa e fragile condivisa con gli amici tra graffiti sui muri, bravate, saltare la scuola, risse. E undici la più piccola, saggia e spaventata, che piange quando i genitori litigano.

Per Abby le cose sono diventate peggiori dopo che ha venduto l’automobile per comprare il furgone di Ricky. Eppure è sempre dolce, non alza la voce, coi figli cerca di mediare – e di mantenere la tacita promessa, scambiata col marito, di non alzare mai le mani su di loro – per bilanciare una presenza nelle loro giornate divenuta sempre più rada. Neppure a Ricky va meglio, la società per cui lavora, una specie di Ubs o Tnt impone ritmi senza respiro, si piscia nella bottiglia perché come a Walmart o deliveroo o amazon la produttività è tracciata da un un bip meccanico: rallenta, si paga. Nessuna copertura, nessun diritto, nessuna indennità anche se ti rompono la faccia. Cosa significa vivere così, quali sono gli effetti di una simile realtà, sul corpo e sulla testa?Perché Sorry We Missed You parla di questo. Ci dice alla maniera di Loach, ovvero senza mezze misure, le conseguenze delle nuove economie sempre più liberiste sulle società, e soprattutto si addentra tra gli effetti di questo precariato divenuto regola sui sentimenti delle persone. Qui assume i contorni più feroci ma vale per tutti: fabbriche, uffici, giornali, nessuno può lasciare se «precario», non sono permesse la malattia, la maternità, la famiglia, perché c’è sempre qualcuno pronto a prendere il tuo posto. E se la pratica può talvolta essere diversa quest’ansia è ormai uno stato mentale persino auto-imposto, la unica certezza.

E ALLORA come si ama, come si sta insieme, semplicemente come si fa a vivere emozioni e relazioni? La famiglia del film si frantuma sempre più, ciascuno dalla sua parte mentre cresce l’ossessione, e con questa la paura di non riuscirci del protagonista. Ribellarsi è (di nuovo?) «No Future» per i ragazzini, boicottare è un gesto d’affetto. È proprio la lente di questa intimità, di un vissuto affettivo disperso tra assenze e stanchezze la scommessa e la riuscita del film. In questo spazio la «cronaca» sociale assume una sua verità tangibile, che riguarda la vita di ciascuno, la interroga e insieme costruisce una consapevolezza. Distogliere lo sguardo dopo diventa un po’ più difficile.