«C’è un unico nume tutelare in questo film ed è Massimo Troisi. Non c’è Fellini, non c’è altro, solo il cinema di Troisi»: a raccontarlo ieri è stato Paolo Sorrentino che, con l’intero cast, ha presentato a Napoli il suo ultimo lavoro È stata la mano di Dio, candidato per l’Italia agli Oscar, in uscita nella sale il 24 novembre e dal 15 dicembre su Netflix. La storia è quella, dolorosa, della sua famiglia con i genitori deceduti per una fuga di gas nella casa in montagna quando il regista aveva 16 anni. Le vicende personali si intrecciano con quelle della città in una fase particolare, la Napoli del post terremoto del 1980: la conflittualità sociale altissima, la crisi economica e la nuova stagione di rapina dei fondi pubblici che non ci sono, l’atmosfera è sospesa nello spazio mentale del protagonista dove la realtà affiora e si inabissa.

SORRENTINO è tornato a girare per le strade partenopee a venti anni da L’uomo in più: «Volevo fare un film dove Napoli fosse anche protagonista, ne L’uomo in più è una presenza più tangente rispetto alla storia, non decisiva. Ma non è la mia idea di Napoli: è sempre pericoloso mettersi in testa un’idea della città e poi perseguirla, troppo programmatico». E sulla scelta del tema biografico: «Se ci sono ragioni profonde non mi piace conoscerle. Nel film c’è casa mia, un piano sotto all’appartamento dove vivevo, la scuola che ho frequentato, i posti che ho scoperto a 17 anni. Parlare del film ha trasformato il dolore in racconto quotidiano, non più a me stesso ma agli altri. Ed è di grande aiuto, annoiarsi è una scorciatoia per non occuparsi più delle proprie pene».

TONI SERVILLO interpreta il padre, la madre è affidata a Teresa Saponangelo: «Ci siano divertiti a raccontare certi papà che, sentendosi inadeguati al ruolo, finiscono per sembrare simpatici nella loro cialtroneria – ha spiegato Servillo – con una moglie così appassionata di scherzi era difficile non rendere divertente la coppia nonostante il destino tragico». E Sorrentino: «È tipico della mia famiglia e di una certa mentalità di Napoli quel modo di ricercare sempre la leggerezza della vita anche nelle situazioni più drammatiche. Può darsi che prima o poi i nodi vengano al pettine, ma non è detto, potresti non doverli mai affrontare».

NEL FILM, il marito pretende dalla moglie «rigore anche morale, ricordati che siamo comunisti» mentre resta sospeso tra due famiglie e acquista la casa a Roccaraso. La moglie tiene allegra la famiglia, soffre e perdona come da tradizione. La sorella, interpretata da Luisa Ranieri, viceversa preferisce la casa di cura per malattie mentali al conformismo familiare dove la parte femminile è dominata dall’eccedente, tranne la sorella del protagonista relegata dietro la porta del bagno.
Maradona, talento e perseveranza, è la cifra scelta per raccontare la città. L’attesa, l’entusiasmo, il gol di mano all’Inghilterra, fino all’intervento salvifico: il protagonista (interpretato da Filippo Scotti), come Sorrentino, sopravvive alla morte dei genitori poiché rimane a Napoli per andare allo stadio a vedere la gara contro l’Empoli. La storia è disseminata di riferimento cinematografici: l’arrivo di Fellini in città per cercare attori, Zeffirelli come pretesto per uno scherzo, la videocassetta di C’era una volta in America.

E POI c’è il regista Antonio Capuano, interpretato da Ciro Capano, con cui Sorrentino ha scritto a quattro mani Polvere di Napoli: «Avendo perso il padre a 16 anni – racconta – ho mancato la fase del conflitto, Capuano mi ha spiegato che il conflitto è necessario. Quando gli raccontavo della sceneggiatura che avevo in mente, L’uomo in più, mi contraddiceva in tutto, non andava bene niente. Le mie erano idee estemporanee, frutto di una necessità estetica e lui metteva il dito nella piaga». Le Figaro definisce Napoli «città da terzo mondo»: «Questa città se la cava egregiamente da tantissimo tempo, difficile che diventi altro rispetto a se stessa» la replica di Sorrentino.