Una causa di diffamazione che ci ha visto involontari protagonisti abbatte un muro della giurisprudenza e apre una breccia importante per i diritti civili.

Fino a mercoledì scorso accostare una persona qualunque all’omosessualità è stato sempre giudicato di per sé – considerato il presunto sentire collettivo di questo paese – causa di discredito e pubblico ludibrio. E perciò senza eccezioni sempre diffamatorio.

Una sentenza storica della giudice Valeria Ciampelli ha invece assolto il manifesto per il titolo «Matrimonio all’italiana» pubblicato nella copertina del 16 marzo 2012 che raccontava un’altra sentenza storica, ma della Cassazione, sul caso di due cittadini italiani sposati in Olanda ai quali veniva riconosciuto sì «il diritto a una vita familiare» ma vista l’assenza di una legge, in Italia quell’unione – legittima – era purtroppo priva di effetti giuridici.

Una persona eterosessuale ritratta sul giornale si è sentita diffamata dall’accostamento e ha querelato la direttrice.

Il tribunale di Roma, rompendo un tabù decennale, ha però dato ragione all’avvocato Marcello Marchesi, che ha difeso il manifesto (e i diritti di tutti), avvalendosi anche della testimonianza di Imma Battaglia, organizzatrice dell’iniziativa illustrata in quella copertina.

Essere omosessuali non è un reato né un illecito. È una espressione libera e neutra della propria sessualità ed esservi accostati non può (più) essere considerato di per sé come un’offesa. Tantomeno in un giornale che si è sempre battuto contro le discriminazioni e per i diritti civili.

La nostra assoluzione è stata piena: «Il fatto non sussiste».

La sessualità è un diritto che la comunità intera ha il dovere di rispettare.

Speriamo che ora cada anche l’ultimo tabù, il più grande, quello di un parlamento che da decenni resta muto e sordo a ciò che la società e la magistratura hanno ormai dimostrato di saper interpretare e accettare.