In quest’autunno alle porte, c’è un’inversione di tendenza nella moda: non è più vero che vincono i numeri alti. Soprattutto se si parla della moda che pensa, che immagina, che crea il nuovo. Anzi, i numeri alti destano il sospetto, che è ormai certezza, della mercificazione dell’idea. E quella moda non piace più, è ritenuta solo aspirazionale e non cosciente, è troppo globalizzata per attrarre animi selettivi e consumatori esclusivi.

C’è di che riflettere, in un sistema che ha fatto dei numeri alti la sua ragione di vita.
Così, mentre prima delle vacanze la presentazione dei risultati economici del primo trimestre dei marchi milionari ha lanciato segnali di allarme che vanno tra il +2 di crescita e il -4 per cento di decrescita, i clienti più disponibili all’acquisto dei mercati ricchi si orientano verso una moda che si identifica con la qualità delle idee o dei materiali, mentre lasciano a chi ancora crede nella moda come status symbol i marchi che si identificano con un logo o le collezioni troppo riconoscibili delle aziende che fatturano miliardi di euro. C’è una nuova esigenza in chi crede che la moda sia creatività e immaginazione del nuovo ed è la voglia di distinguersi nei contenuti.

Un’esigenza che però possono soddisfare quei marchi di nicchia che, non dovendo nutrirsi di bilanci stratosferici, possono ancora esprimere i caratteri della ricerca attraverso i loro abiti, mentre sono pochissimi i marchi che pur vendendo moltissimo alcuni prodotti (accessori) riescono a conservare una leadership nella creatività.È questo il momento in cui è evidente il distacco tra l’etica della qualità e l’estetica del consumo e le attenzioni si rivolgono ai marchi che rifiutano l’ingigantimento del loro mercato.

Basta l’esempio di Comme des Garçons di Rey Kawakubo, faro della tendenza di moda da quarant’anni, riverito e fonte di ispirazioni per tutti gli altri designers, mito per gli appassionati di moda mondiali, che a stento raggiunge i 200 milioni di euro di fatturato, tra abiti e profumi: un niente rispetto agli oltre 3 miliardi di molti marchi nati anni dopo. Dall’altro lato, un designer come Nicolas Ghesquière, lasciata la nicchia di Balenciaga e inserito nella galassia Louis Vuitton, dove è costretto a confrontarsi con la vendita a grandi numeri, agli occhi dei suoi seguaci sta perdendo la propria originalità.

Il discorso vale anche per la stampa specializzata. I periodici di moda più seguiti sono quelli che vendono meno copie e scelgono i propri lettori nella ristretta fascia di opinione pubblica che fa tendenza. E per questo hanno anche più pubblicità dei periodici a larga diffusione che, invece, stentano a raggiungere il pareggio e sono costretti a chiudere. Più che una crisi, è un’occasione di cambiamento e di rinascita. Come negli Anni ’70, quando il designer immaginava e diffondeva le proprie idee da una parte e l’industria declinava commercialmente le idee dall’altra. Con tempi e prodotti nettamente e dichiaratamente separati.
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