Sorour Darabi canta, recita, danza, ispirandosi a un rituale dell’antica tradizione sciita ancora praticato nel suo paese d’origine, l’Iran. Il performer e coreografo transgender rielabora e interpreta la cerimonia preislamica che commemora la battaglia di Kerbala e la morte del nipote del profeta nello spettacolo Savusun, nei giorni scorsi all’Ateliersi di Bologna per Gender Bender, il festival internazionale prodotto dal Cassero LGBTI Center della città che quest’anno ha per titolo «Radical Choc», diretto da Daniele Del Pozzo e Mauro Meneghelli, sulle nuove rappresentazioni del corpo, identità di genere e orientamento sessuale.

Il rituale è un’occasione per esprimere tristezza e fragilità e indirizzare un’intensa lettera al padre, ex generale dell’esercito, in cui ripercorre le trasformazioni e le pulsioni del suo corpo, il desiderio, l’attrazione, la sessualità. L’artista di Shiraz, che ora vive e lavora a Parigi, ha collaborato con l’organizzazione indipendente di Teheran ICCD (invisible center of contemporary dance) e ha studiato al centro nazionale di coreografia di Montpellier. Darabi ha spiegato così il suo lavoro al pubblico.

«HO LAVORATO sul senso di lutto e dolore. Questo rituale teatralizzato, esclusivamente riservato agli uomini, è una sorta di carnevale che si svolge in strada. Si possono esprimere le emozioni collettivamente in pubblico. Il senso di perdita è importante per la comunità lgbtqi, dopo il coming out spesso amici e familiari si allontanano, e questo è un modo per ritualizzarlo. Si tratta di una cerimonia sciita che mi riconnette con la storia del mio paese, gli sciiti per molti anni sono stati discriminati. In occidente sento una forte islamofobia per questo vorrei far conoscere il mio background culturale e sfatare alcuni pregiudizi sugli uomini mediorientali e africani, a cui si attribuisce una mascolinità tossica, sessista, machista. Nello spettacolo vorrei decostruire questo pregiudizio che riguarda anche me per il solo fatto di essere maschio e mediorientale. Prima di fare coming out molti pensavano che fossi andato via dall’Iran per questa forma di oppressione, ma che una volta in occidente fossi al riparo e non è così».

SULLA COSTRUZIONE della performance Darabi ha aggiunto «è stato difficile scegliere i movimenti, alcuni uomini mostrano il loro potere, altri mettono a nudo la loro vulnerabilità. Questo spazio pubblico in Iran è diventato un momento di aggregazione per gli omosessuali. In occidente la tristezza è un sentimento difficile da esprimere mentre nella comunità lgbtqi c’è qualche strumento in più. È importante facilitare la condivisione delle emozioni e il mio lavoro sul palco è fatto per questo. Io utilizzo la vulnerabilità come strumento di sopravvivenza quotidiana. Chi è queer non è mai una persona neutra. Nella mia transizione mi è capitato più volte di trovarmi nel mezzo, di non essere né da una parte né dall’altra, non ero ancora o non ero più qualcosa, in questo processo in cui si è in mezzo è fondamentale la condivisione come strumento per vivere la vulnerabilità che non è più debolezza».

E AGGIUNGE: «In quanto transgender già mostrare il mio corpo mi obbliga a proteggermi, a mettere una distanza, ma è anche vero che il palco è una forma di spazio sicuro. Essere un’artista mi ha permesso di sopravvivere. Attraverso il mio lavoro ho la possibilità, entro un certo limite, di cambiare il futuro e ciò che c’è fuori, e questo mi dà forza. Stare in scena è importante anche perché non potendo tornare in Iran il palco mi dà la sensazione di essere a casa, in uno spazio solo mio in cui sono l’unico a poter entrare. Questo sentirmi a casa non mi capita quasi mai nel resto della mia vita, nella quotidianità o in strada».