Massimo Montella, ideatore del sistema museale dell’Umbria, insegna Economia e gestione dei beni culturali presso l’Università di Macerata. Tra il 2006 e il 2008 è stato vicepresidente della commissione ministeriale per la revisione del Codice dei beni culturali e del paesaggio e presidente della commissione per la definizione dei livelli minimi della valorizzazione dei beni culturali pubblici.

Dirige la rivista Il Capitale culturale, che da sei anni alimenta la discussione intorno ai nodi cruciali legati alla gestione del nostro patrimonio. Gli stessi sui quali sta intervenendo dall’estate del 2014 la riforma avviata da Franceschini, impegnata in questa seconda fase nella ristrutturazione del sistema delle soprintendenze.

Le soprintendenze sono o no il fiore all’occhiello della nostra politica culturale?
È impossibile dire cosa sarebbe accaduto se fosse stata scelta una diversa organizzazione della tutela. In ogni caso, io non le mitizzerei. Le soprintendenze sono state pensate per epoche in cui la democrazia era assente o incompleta e hanno funzionato bene quando la popolazione era incolta e affamata e il patrimonio andava protetto dagli italiani stessi. Ora siamo in una democrazia di massa. Evitando di lanciarci in rischiose avventure, e quindi progressivamente e razionalmente, dovremmo raggiungere quel livello successivo in cui i cittadini diventino i difensori del proprio patrimonio. Come sottolinea la Convenzione di Faro, ratificata dall’Italia nel 2013, dobbiamo fare in modo tale che la comunità percepisca l’importanza, e l’utilità, del valore immateriale e materiale dell’eredità storica.

Agli archeologi che protestano contro la riforma sembra che il ministero stia agendo contro se stesso, negando il ruolo di un organismo che è stato avamposto in difesa del paesaggio culturale.
Non confondiamo i beni culturali con il ministero dei beni culturali e con le soprintendenze. Prima dobbiamo dire cosa va fatto, dopo chiederci come organizzarci al meglio per farlo. Allora, in un secondo tempo, verrà la questione delle soprintendenze. Dovremmo quindi prima capire dove nasce il valore di un bene culturale… Non è più una banale questione di «bellezza». Nonostante alcuni sembrano non essersene accorti, la bellezza non ha salvato il mondo. La definizione di bene culturale data nel 1964 dalla Commissione Franceschini è questa: «ogni testimonianza materiale avente valore di civiltà». Parliamo della storia delle civiltà passate, la cui cultura non si esaurisce nell’arte. Il neoidealismo è finito, Croce è morto. I documenti probanti delle civiltà sono soprattutto gli oggetti di uso comune e di produzione seriale: quelli che raccontano le normali condizioni di vita.

Come si può affrontare lo studio di documenti simili?
La stagione delle specializzazioni disciplinari è tramontata, culturalmente e amministrativamente. Non è possibile che il muro di un edificio sia competenza dell’architetto, l’affresco su di esso dello storico dell’arte e gli scavi sotto il pavimento dell’archeologo. A meno che non agiscano insieme. Lo stesso oggetto è un organismo che include componenti diverse: non può essere trattato in modo disorganico. Abbiamo bisogno di organismi tecnici territoriali per la conservazione preventiva e programmata dei beni diffusi sul territorio, del paesaggio e degli oggetti. Dobbiamo trovare un punto di armonizzazione tra urbanistica e paesaggio e dare corpo a una programmazione negoziata. Per riuscirci, lo Stato deve cercare nuovi rapporti con quelle regioni che, nonostante le loro enormi colpe e l’impegno dell’amministrazione centrale per farle fallire, restano un elemento fondamentale per il governo dell’Italia. È necessario organizzare la rete dei nostri musei, compresi quelli locali, i più numerosi. Ecco i capisaldi per tracciare un itinerario che consenta di accedere fisicamente e intellettualmente a quello che è stato felicemente definito «museo diffuso». Valorizzare significa aiutare le persone a comprendere il valore immateriale e materiale, sociale e economico implicito nell’eredità culturale, cosicché sia la comunità stessa a prendersene cura. Gioverebbe anche un’opportuna educazione scolastica. Il dibattito sul patrimonio culturale deve precedere il tema delle soprintendenze.

La riforma, tuttavia, parte da qui. Non pensa che le soprintendenze uniche siano meno funzionali?
All’interno di esse, sono previste delle articolazioni disciplinari. Non vedo perché il loro accorpamento mortifichi le professionalità, come sostenuto da alcuni, e depotenzi la tutela. Quando, nella prima fase della riforma, hanno unito le soprintendenze storico-artistiche con quelle del paesaggio, sono stati gli storici dell’arte a protestare, dicendosi timorosi di «dissolversi» di fronte agli architetti. Mi è sembrato un atteggiamento di chiusura corporativo, esattamente come sta succedendo con gli archeologi. Lo ripeto, riprendendo le parole di Giovanni Urbani: «Prima chiediamoci cosa dobbiamo fare, poi ci chiederemo chi può farlo e come».

Cosa c’è che non va nelle soprintendenze?
Ogni soprintendente, in mancanza di una formazione comune, resta una repubblica a sé stante. Se il codice afferma che la valorizzazione deve rispettare le esigenze della tutela, tuttavia non specifica quali queste siano. Con il risultato che ognuno le interpreta a suo modo. Il soprintendente è una figura prefettizia rispondente alla visione di un governo dall’alto che ammonisce di tenersi quanto più possibile lontano dalle spinte locali, viste come fonti di corruttela. Chi però pensa questo dovrebbe credere di poter tornare al passato, sostituendo i sindaci con i podestà e abolendo il diritto di voto universale. È lo stesso equivoco di coloro i quali credono che i tecnici possano pre. ndere il posto della politica.

Pensa che la riforma stia aprendo nuove possibilità nella direzione da lei auspicata?
La riforma non si misura con questi temi di fondo. Spero razionalizzi il rapporto tra i cittadini e l’amministrazione dello Stato e ponga rimedio alle compartimentazioni disciplinari ottocentesche, portando gli archeologi a lavorare con gli storici dell’arte e, tutti insieme, con gli architetti. Intanto, finché il sistema resta quello attuale, occorre potenziare gli organici e le risorse tecniche. È anche necessaria una revisione dei percorsi formativi universitari, per creare figure in grado di contemplare una visione unitaria del patrimonio e della complementarietà delle funzioni di tutela e valorizzazione. E, soprattutto, che abbiano piena coscienza della natura degli uffici preposti alla tutela. Sono servizi pubblici, non organi di polizia.