Si chiude oggi a Cagliari il XXIX congresso nazionale dell’Istituto Nazionale di Urbanistica (Inu) «Progetto Paese: l’urbanistica fra adattamenti sociali e climatici, nuove geografie istituzionali e innovazioni tecnologiche» in corso dal 28 aprile. Nato nel 1930 e rifondato su basi democratiche nel dopoguerra, l’Inu ha rappresentato fin dalle sue origini una delle voci più autorevoli, in grado di dialogare alla pari con istituzioni e centri di ricerca sulle questioni del costruire e dell’abitare in Italia. Un lungo percorso segnato da tappe e presenze importanti, come quella di Adriano Olivetti, che per dieci anni ne è stato presidente, e il cui lascito è stato ricordato durante l’incontro cagliaritano. «Credeva nell’urbanistica», sottolinea Silvia Viviani, architetta, urbanista e presidente dell’Inu dal 2013. «Olivetti – prosegue – ha unito innovazione tecnologica, capacità d’impresa, visione strategica di lungo periodo, attenzione alla persona e senso della comunità, dimostrando che tutto questo può trovare concretezza nei luoghi dove viviamo e lavoriamo».
Fra i temi più urgenti sollevati durante il congresso, nel quadro generale di una grande trasformazione degli assetti normativi e di un ritorno globale della concentrazione urbana, il consumo del suolo e i nuovi degradi, i nuovi rischi ambientali legati anche ai cambiamenti climatici, e l’accessibilità, intesa non più come abbattimento delle «barriere architettoniche» ma come ridefinizione degli standard che esca dall’ideologia di un uomo vitruviano, o di un «modulor», che nella realtà non si incontra. Dinanzi a questa complessità, secondo Viviani «le tre parole chiave che abbiamo proposto al nostro congresso sono: adattamento, geografie e innovazione. Decliniamo l’adattamento in relazione ai cambiamenti climatici e sociali. Il futuro delle città – aggiunge – si può costruire con progetti in grado di aumentare le occasioni di convivenza. Geografie significa poter coordinare le politiche pubbliche e l’utilizzo delle risorse in modo da rendere chiaro e concreto chi governa cosa, per andare dove, con quali mezzi. Per innovazione si intende un buon utilizzo delle tecniche e delle tecnologie per attuare e gestire la trasformazione degli ambienti urbani».
A leggere i documenti congressuali si percepisce una interpretazione negativa dello stato delle pratiche e politiche urbanistiche italiane, almeno di quelle degli ultimi 15 o 20 anni. L’urbanistica in Italia è peggiore che in passato?

Penso che la nostra disciplina sia soffocata in questo momento da un eccesso normativo e regolamentare. Si sono persi così i fondamenti di questa pratica che sono a valenza sociale. L’urbanistica infatti è il progetto degli ambienti nei quali vorremmo vivere, proiezione dei bisogni e delle aspettative.
Dite che i piani urbanistici hanno in generale fallito anche per via dei lunghi tempi di preparazione e delle continue varianti, e proponete invece un «primato dei saperi esperti». Non esiste il rischio di rinforzare la tecnocrazia?
La nostra disciplina è complessa, è arduo dare un giudizio univoco: vi sono esperienze negative, ma ve ne sono anche di positive che dimostrano come la pianificazione possa essere un patrimonio collettivo. Per sapere esperto intendiamo l’esatto opposto del tecnicismo: è prima di tutto cultura, intesa come capacità di tradurre una visione politica.
Quello dell’abitazione è un tema che sta tornando prepotentemente sulla scena internazionale, e rispetto al quale il nostro paese rappresenta un caso particolare, con una media di case di proprietà molto più alta che nel resto del mondo. Ma la casa è ancora un diritto? Quali sono le prospettive per l’Italia?
Quello alla casa è un diritto. Comincia ad avvertirsi un’attenzione maggiore non tanto al tema dell’edilizia sociale in generale – che in parte ha trovato risposte nelle politiche dei fondi immobiliari – ma verso una ripresa dell’edilizia residenziale pubblica. Da questo dibattito a misure concrete, tuttavia, la strada è ancora lunga.