Le immagini di Furore di John Ford sono come oscurate dalla «Dust Bowl», la tempesta di sabbia e di vento che flagella Texas, Oklahoma, Kansas, Colorado, New Messico, gli stati centrali dell’America negli anni della Grande Depressione. È l’infuriare del vento che soffia senza posa a cacciare i contadini dai loro campi, a spingerli verso la California, la terra promessa nella nuova corsa al West. L’accumulo di cause naturali negative s’intreccia al ricatto delle banche e della meccanizzazione.

Il primo importante documento sul fenomeno è You Have Seen Their Faces, il libro che Margaret Bourke-White realizza nel 1937 con lo scrittore Erskine Caldwell, suo marito. La grande fotografa – che fa parte dello staff di  «Fortune», dove qualche anno prima aveva pubblicato un reportage sulla siccità nelle grandi pianure, e nel ’36 passa  a «Life» – coglie con singolare sensibilità gli interni delle baracche dell’Arkansas tappezzati di vecchi giornali per proteggersi dal freddo in cui vivono ragazzi mal nutriti e ammalati. In una baracca incontra Begonia che ha una gemella: vanno a scuola a giorni alterni perché hanno una sola giacca e un unico paio di scarpe. Sulla parete dietro alla ragazzina si vede la pubblicità di centinaia di scarpe, giacche e cappotti, niente di reale da poter essere utilizzato per andare a scuola.

Nell’ottobre 1936 John Steinbeck scrive sette polemici articoli, dedicati alla drammatica condizione dei contadini dell’Oklahoma, sul  «The San Francisco News» con il fotografo Horace Bristol di  «Life» che due anni dopo diventa il libro Their Blood Is Strong, con in copertina la fotografia Okie Mother and Child in California di Dorothea Lange, in cui una giovane madre allatta il figlio sotto la tenda di un accampamento. Il reportage, che precede l’uscita del romanzo sarà ripubblicato solo negli anni ottanta con il titolo The Harvest Gypsies e il sottotitolo On the Road to the Grapes of Wrath.

Già nel 1935 Dorothea Lange viene chiamata con Walker Evans e altri fotografi, pittori, scrittori, ricercatori, a far parte della Farm Security Administration voluta dal presidente Roosevelt per documentare «Quel terzo mal nutrito, mal vestito e male alloggiato» che costituisce la popolazione degli stati agricoli del centro e del sud colpita dal dramma della siccità e della recessione economica. L’America comincia a guardarsi dentro, scopre l’importanza della documentazione, inizia a rinnovarsi superando gli schermi dell’ipocrisia che tendono a ignorare i gravi problemi del paese.

Dorothea lavora spesso con il marito Paul Taylor sociologo a Berkeley, gira per la California, avvicina gli migranti, i senza tetto, i neri, i messicani. La foto che scatta nel ’36 diventa l’emblema della Farm. La Migrant Mother si trova nel campo rifugiati di raccoglitori di Nipomo, California. Come sempre il punto di vista della fotografa dal basso verso l’alto sottolinea il volto bianco segnato di rughe della giovane madre.

Seduta, le stanno accanto quasi a continuazione del suo corpo i tre figli. Il più piccolo dorme abbandonato sulle ginocchia. I due più grandi, appoggiati alla madre si nascondono, uno mettendo il viso dietro la sua spalla, l’altra chinando il capo sulle braccia. L’immagine è morbida, i bianchi e i neri si stemperano gli uni negli altri quasi a carezzare il gruppo dolente di un nuovo calvaire.

Le foto di Dorothea sembrano avere la necessità della mancanza. L’acqua non può pulire la sporcizia dei volti dei bambini, non può scacciare le mosche. I visi sono disidratati, le immagini sono scavate. Ma non ritraggono una miseria disperata, piuttosto la dignità e l’orgoglio di chi non vuole arrendersi. Se la madre di Nipomo è tra le sue foto più emblematiche, le carovane di auto traballanti sotto carichi impossibili di bagagli, passeggeri, masserizie, neonati, cani, e gli uomini solitari che percorrono a piedi la Route 66 sono passati direttamente alle pagine di Furore, e dal romanzo di Steinbeck al film di Ford.