Nel cuore del Marais a metà strada tra il Museo Picasso e il Centro Pompidou, il Museo della Caccia e della Natura rappresenta una meta, se non proprio sconosciuta, trascurata sia dai turisti che dagli stessi parigini. È la sorprendente mostra Beau doublé, Monsieur le Marquis! curata da Sonia Voss, che occupa le sale espositive con le opere di Sophie Calle e della sua ospite Serena Carone (fino all’11 febbraio), a condurci qui, in uno spazio barocco sorprendentemente stratificato, in cui nelle vetrine, nei cassetti, nei gabinetti si mescolano armi antiche, animali impagliati, schedari, quadri, disegni, sculture, diari, suppellettili, e tutto ciò che nella storia degli ultimi quattro secoli parla della passione umana per la caccia. È un luogo suggestivo, affascinante e malinconico, per molti aspetti lontano dalla sensibilità contemporanea, una wunderkammer nella quale si avvertono il desiderio di sfida, la grande tensione verso il selvaggio e il senso di predazione nei confronti del mondo animale che implica la pratica venatoria; ma al senso di meraviglia che la vista dell’animale suscita si affianca inevitabilmente il sentimento della perdita e del dolore, e il loro epilogo estremo: la morte.
Parola dappertutto
Proprio a partire da questi temi si sono sviluppate tante delle opere di Sophie Calle, artista oggi quasi sessanticinquenne, la cui ricerca concettuale è basata sulla memoria, sull’assenza, sul dolore. Anche sulla scrittura, come ampiamente testimoniato dalla sua carriera e, in questo sito espositivo, dalla presenza della «parola» su ogni superficie, parete, cassetto, tavolo o armadio. Beau doublé, Monsieur le Marquis! raccoglie infatti una cinquantina di opere – affiancando lavori di repertorio ad altri appositamente concepiti per questo spazio – in cui l’artista sonda gli interstizi porosi tra autobiografia e finzione letteraria, mettendo al centro della relazione con lo spettatore le questioni percettive ed esistenziali che costituiscono l’amicizia, l’amore, la familiarità e i traumi che ne scaturiscono.
Ma quella di Sophie Calle non è solo la storia di una ferita che non si rimargina, di una persona «sanguinante come un animale» (parole sue, in uno dei testi sparsi nel secondo piano), bensì anche il racconto di un modo per esorcizzare la morte e la violenza intima che stare al mondo comporta. Conviene allora trovare dei rimedi, qualcosa che possa sollevare e aiuti ad addolcire l’asprezza del male di vivere: diventa fondamentale, evidentemente, prendere con un po’ d’ironia la propria situazione cercando talora conforto nel registrare i più piccoli episodi della vita quotidiana, in un minuzioso diario (di lacrime? di spiritosaggini?) fatto del materiale umano e delle relazioni che si intessono con le persone, con la morte e con i morti, come si legge, esposti al primo piano, nei testi di Matin o nel libro illustrato Que faites-vous de vos morts?, che il visitatore è invitato a integrare fornendo la propria personale risposta, a metà strada tra rito apotropaico e semiseria autoterapia. La narrazione di Sophie Calle ci vede testimoni, un racconto in prima persona che si snocciola da trauma a trauma senza soluzione di continuità, tra parole, fotografie, storielle tragiche o buffe, come testimonia ad esempio Infartus silencieux o il gatto nella culla in Souris, che placido dorme, non sappiamo se per una pennichella pomeridiana o per un sonno ben più lungo.
Ambiguità percettiva
Tutta la mostra – che, come spesso nelle opere dell’artista francese, trasforma il visitatore in lettore – è costruita proprio sull’ambiguità percettiva/emotiva e sulla continua variazione dello stato d’animo, come accade frequentemente nelle persone che soffrono di depressione o che hanno tendenze bipolari. Così, ad esempio, proprio quando sembra non esserci un’alternativa percorribile, compare una soluzione ironica, un’opera che ribalta verso il sorriso il nostro stato animo. Dolore e burla vanno insieme: la tragica Pleureus, realizzata invece da Serena Carone, che nella mostra alternativamente funge per Sophie Calle da sparring partner e da alter ego, raffigura un busto che piange di continuo lacrime. Trasformare la tragica azione del pianto in un gesto meccanico e ripetitivo fa immaginare però non tanto la sofferenza, quanto, spassosamente, la classica fontana coi putti che giocano facendo pipì.
In senso più ampio le opere di Sophie Calle mirano a cambiare la convenzione di alterità tra opera e osservatore, poiché quest’ultimo diventa testimone di qualcosa, soggetto messo a conoscenza di fatti o emozioni che paiono essere insieme confidenze o confessioni fatte al proprio analista. L’artista si sforza infatti di cancellare il sottaciuto patto di neutralità dell’opera nel confronto del fruitore, sconfinando in un gioco di verità e di bugie che è insieme finzione nella tragedia e tragedia nella finzione. E non solo falso e vero si scambiano di ruolo, ma in questa sostituzione chi guarda, beffardamente, ci guadagna, anche nel buon umore di una risata catartica.
Come raramente capita, Beau doublé, Monsieur le Marquis! è una di quelle mostre in cui la non neutralità del contesto museale implementa il senso delle opere e le accresce, arricchendole di sfumature prima non percepibili. Le presenze di Sophie Calle e di Serena Carone animano infatti lo spazio espositivo, riprogrammandone la fruizione da parte del visitatore, sia grazie alle interazioni delle loro opere con il contesto, sia per le modifiche che l’ordinario allestimento museale ha subito: così, ad esempio, il polpo in terracotta smaltata Mon amie di Serena Carone sembra imitare, grazie ai tentacoli, il bronzo dorato con Diana che gli è fianco nelle forme e nel dinamismo; o il salotto settecentesco può ospitare un regale cervo uscito dalla foresta (Histoires vraies), che approfitta della casa lussuosa per vestire un seducente abito di chiffon rosso, che Sophie Calle ha forse rubato a qualche dama che abita nel palazzo.
Stereotipi virili
La Suite vénitienne, lavoro ormai storico dell’artista (è del 1980), è stata collocata in una vetrina del secondo piano: qui lei insegue e ritrae in incognito per tutto il giorno il medesimo passante, alla stregua di un cacciatore che insegue le proprie prede. Nella recente Le Chasseur français sono trascritti decine di annunci matrimoniali di uomini francesi in cui sono evidenti – linguisticamente, antropologicamente – gli stereotipi virili del cacciatore e l’idea di donna come bersaglio e preda.
Tanto più in questo museo che racconta la storia di trofei osannati e di morti orrende, Sophie Calle sembra voler comunicare che la nostra vita è sì dolore, il cui amaro veleno non è destinato a diluirsi, ma forse anche ironia e sberleffo liberatorio. Come ben sintetizzato dall’orso impagliato (L’Ours), coperto da un lenzuolo che accoglie e saluta i visitatori. Deve ridersela sotto i baffi mentre cerca di spaventare le persone travestito da fantasma.