Sons of Kemet ha un suono aggressivo, ipnotico, che accumula riff e macina ritmi. All’inizio Shabaka Hutchings (leader tenorista) e il suo quartetto si impongono al pubblico del Roma Jazz Festival con alti volumi, cappelli, le due batterie al centro, ai lati sassofono e tuba (l’eccellente, infaticabile Theon Cross). Il bis – dopo un’ora e venti di concerto tiratissimo – è un’improvvisazione acustica per batteria e tenore, dal suono rotondo: ben diverso dal timbro elettronicamente modificato – tagliente, nasale, a tratti urticante – che Hutchings ha usato, quasi ostentato, per tutto il recital.

Successo di pubblico, spettatori soddisfatti, una parte dei presenti coinvolta fisicamente in danze spontanee; gli spettatori più giovani potrebbero essere fan di Kamasi Washington, con cui Shabaka Hutchings – 33enne britannico, originario delle Barbados – ha più di un’affinità, ma al Parterre Farnesina non mancavano critici, musicisti, appassionati per uno dei gruppi di tendenza più quotati, i Sons of Kemet il cui nome evoca l’antico Egitto, l’afrofuturismo e Sun Ra. Leader e gruppo si sono concentrati sulla musica senza spendere una parola sui suoi messaggi, ben chiari nell’album Your Queen Is a Reptile, da poco pubblicato dalla Impulse! (ora Verve). Nel repertorio del cd – in parte riproposto nel concerto romano – i brani sono tutti dedicati a donne «resistenti» e «antagoniste», da Harriet Tubman ad Angela Davis, da Nanny of the Maroons ad Albertina Sisulu.

Nulla è stato detto: Hutchings si è limitato a presentare i musicisti, i brani proposti si infilavano uno nell’altro in un continuum ritmico quasi totale, con il tenore ad affastellare frasi-riff e la tuba a riprenderle, integrandosi nel contempo al cuore ritmico costituito dalle due batterie di Tom Skinner e Seb Rochford (importanti nel sound dell’odierna Londra).

Serve un po’ di contestualizzazione per valutare, apprezzare, al limite criticare i Sons of Kemet, attivi dal 2011. Intanto è necessario pensare a Londra, ad una serie di progetti che Shabaka Hutchings anima (tra cui i notevoli Ancestors, oltre a collaborazioni con Louis Moholo ed Heliocentrics), all’importanza dei ritmi afrocaraibici (affiora talvolta il reggae) che si uniscono a dub, free jazz, rock, dancefloor. Siamo in assenza di qualsiasi riferimento armonico: dominano il ritmo e le voci strumentali, quella del tenorista aggressiva ed «ayleriana», la tuba più morbida per quanto instancabilmente propulsiva. La mancanza delle voci (nel cd ci sono, in 3 brani su 9, Congo Natty e Joshua Idehen) rende la musica dei Sons of Kemet a tratti «fredda» (nonostante l’esplosivo incedere), comunque poco melodica, con frasi che hanno un sapore minimalista nonostante l’enfasi. Musica, in ogni caso, con cui confrontarsi se si vogliono ascoltare i suoni della Londra contemporanea e meticcia che manda segnali da captare.