30est1 intervista raul capote
«Venni reclutato dalla Cia per preparare la sovversione politico-ideologica contro il mio paese». Il professor Raul Capote comincia così il suo racconto al manifesto. In mano ha il libro «Il nostro agente all’Avana», appena pubblicato in Italia da Zambon. Un’ampia scheda di Alessandro Pagani, il curatore, ricapitola termini e tappe della «guerra psicologica degli Stati uniti contro Cuba». L’introduzione di Sergio Marinoni, presidente dell’Associazione nazionale di amicizia Italia-Cuba, traccia la mappa delle principali «contromosse» messe in campo dal governo cubano per parare i colpi. Il primo a mettere in gioco la sua vita per infiltrarsi tra i gruppi anticastristi, fu Alberto Delgado y Delgado, nella prima metà degli anni ’60. Delgado venne scoperto dai bandidos che lo torturarono selvaggiamente prima di impiccarlo a un albero vicino a Trinidad e la sua storia è raccontata in un film del 1973, «El hombre de Maisinicu». Capote, il primo cubano a infiltrarsi nella Cia, ha rischiato la vita molte volte, ma è ancora qui, a raccontare quella storia anche in Italia, in un giro di presentazioni che lo ha portato a Roma, dove lo abbiamo incontrato.

Com’è cominciata la sua avventura

Ero un giovane scrittore sperimentale, docente universitario, impegnato nell’Unione nazionale degli scrittori e degli artisti di Cuba. La Cia mi ha contattato per lavorare a un progetto chiamato Genesis, diretto soprattutto ai giovani universitari cubani. Si proponeva di formare i leader «del cambio» e creare una organizzazione di falsa sinistra che in un futuro avrebbe dovuto predisporre il cambiamento politico nel paese. Per la Cia, ero l’agente Pablo, per il governo cubano, ero Daniel.

Ero e sono un comunista fedele ai suoi ideali, uno dei tanti cubani che amano il proprio paese. Vivere una doppia vita non è facile senza una convinzione profonda: quando ti sbagli o ti attaccano o vogliono comprarti, sei solo e l’unica tua arma è la motivazione. Ho fatto il mio dovere fino al giorno in cui avrei dovuto compiere attentati e il mio governo ha deciso di rivelare pubblicamente l’operazione.
Negli ultimi incontri tra rappresentanze Usa e quelle di Cuba, una giornalista ha chiesto alla delegazione statunitense se Washington modificherà la sua strategia di ingerenza per promuovere “la transizione” a Cuba ora che sono riprese le relazioni tra i due governi. Le è stato risposto che, in sostanza, l’obiettivo resta il medesimo. Lei che ne pensa? E il suo libro è ancora attuale?

Quel che descrive il libro resta ancora molto attuale. L’attuale strategia di smart power degli Usa – sanzioni da una parte e dialogo dall’altra, che ora stiamo vedendo nei confronti del Venezuela – si può riassumere nel proposito di distruggere la rivoluzione cubana seguendo altri metodi, considerati più efficaci di quelli più marcatamente aggressivi impiegati durante la guerra al «pericolo rosso»: formando, allenando, finanziando leader per il cambiamento, infiltrando o creando gruppi alternativi finanziati dalle agenzie governative statunitensi. Tutto questo all’insegna di relazioni normali tra i due paesi che consentano di agire a Cuba in un contesto di legalità.

Questi erano gli obiettivi del progetto Genesis. Gli Usa hanno dovuto prendere atto del loro fallimento: per 56 anni hanno tentato di mettere in ginocchio Cuba prendendoci per fame, allettando il popolo con ogni tipo di bisogno indotto affinché si sollevasse contro la sua rivoluzione. Tuttavia, né l’aggressione militare, né il terrorismo, né la guerra biologica, né il blocco economico hanno piegato Cuba. Per questo, ora ricorrono alla politica del buon vicinato. Credono che, ristabilendo le relazioni diplomatiche, togliendo progressivamente il bloqueo possano vincere: attraverso una intensa guerra culturale, seminando nell’isola i valori del capitalismo, impadronendosi della nostra economia, corrompendo funzionari, impresari, militari e politici. In pochi anni, con un processo sottile ma inarrestabile, senza che possiamo accorgercene, Cuba ritornerebbe al capitalismo.

I più insidiosi complici delle scelte neoliberiste o moderate dei governi europei sono gli intellettuali. Lei racconta nel libro la difficoltà per resistere a quelle sirene quand’era un giovane e ambizioso scrittore. I giovani cubani sono più esposti di quelli della sua generazione?

Non credo, anzi. I giovani cubani sono molto più preparati, conoscono i modelli occidentali, hanno una cultura generale superiore alla nostra, un impegno grande con il socialismo cubano e hanno modo di frequentare i nostri nemici più di noi. Il fatto che Cuba abbia un livello di cultura generale molto più elevato rispetto a quello di altri paesi della regione e a quello di molti paesi del mondo sviluppato, non è da sottovalutare.

La prima grande opera della rivoluzione è stata quella di elevare l’educazione e la cultura del popolo e questo ha dato i suoi frutti. Cuba ha un progetto culturale alternativo e eccedente la cultura globale del capitalismo.

Difendere questo progetto richiede uomini e donne formati in questa cultura differente, capaci di andare in qualsiasi parte del mondo a educare, a curare, a costruire, a salvare vite umane come fanno i nipotini della rivoluzione in Africa, in Venezuela, in Brasile. Questo non lo fa il capitalismo. Sul piano politico, il paese è molto più forte di prima.

Il Potere popolare si consolida, cresce il livello della partecipazione popolare nelle decisioni, si sta perfezionando il sistema elettorale, si attualizzano le leggi. Il nostro partito di avanguardia – che non è un partito elettorale come molti credono – è diretto per oltre l’80% da quadri politici giovani e di alto livello culturale. L’unità del partito con il popolo è più forte di prima, la gente si sente partecipe e giudice di quel che accade nel paese.