La pubblicazione delle motivazioni alla sentenza del tribunale di Torino che l’11 aprile ha negato lo statuto di «lavoratori subordinati» a sei rider di Foodora è diventato un caso politico e sindacale. Mentre il presidente della regione Lazio, Nicola Zingaretti, conferma la sua intenzione di varare una legge sul salario minimo riservata ai soli ciclo-fattorini delle piattaforme digitali (la lettera pubblicata oggi dal manifesto), Cgil e Cisl – da un lato – e il Movimento 5 Stelle e Liberi e Uguali a Torino – dall’altro lato – criticano la decisione dei giudici. Si discute molto di un’assonanza tra questa sentenza e una precedente, risalente al 1986 che riguardava i pony express.

Due mondi lontanissimi, tecnologicamente parlando, accomunati dalla logica del lavoro a chiamata. Il pony express era coordinato attraverso la radio, mentre il ciclo-fattorino è monitorato da da un’applicazione. La differenza è data dall’algoritmo attraverso il quale si esprimerebbe un potere disciplinare del datore di lavoro nettamente superiore rispetto a quello esercitato attraverso un apparato rice-trasmittente. La questione è dirimente rispetto alla libertà, o meno, del lavoratore di accettare le chiamate e eseguire l’ordine del suo datore di lavoro. Il punto è se il lavoratore è libero di decidere in qualsiasi momento se lavorare o no. Dopo vari passaggi nei tribunali, e un ampio dibattito giurisprudenziale, i pony express continuarono a lavorare al di fuori del diritto del lavoro pur avendo un pretore di Milano stabilito che svolgeva un lavoro subordinato, mentre il Tribunale di Milano e la Cassazione decisero che era un lavoratore autonomo. Lo stesso problema – derivante dall’ambivalenza della parasubordinazione e dalla capacità del capitalismo digitale di affermarsi nei vicoli ciechi del diritto – oggi riguarda i «riders».

Per Claudio Treves, segretario del Nidil Cgil, i ciclofattorini sono «subordinati» alla piattaforma. Per questo richiama l’esempio significativo del pronunciamento di primo e secondo gradi di un tribunale di Londra secobndo il quale gli autisti Uber in Inghilterra – altro esempio di lavoro digitale – sono «workers» e non «employee», ovvero lavoratori (para)subordinati (Treves all’Agi ha parlato di «lavoratori in somministrazione») e non «autonomi» (freelance, auto-impiegati). L’articolo 2 del decreto legislativo 81 del 2015 (Jobs Act) che permetterebbe una simile assimilazione è stato bocciato dal tribunale di Torino. In Europa non esiste un orientamento unico dei giudici, così come negli Stati Uniti dove è fittissima la produzione di sentenze a ogni livello. Il problema è politico, anche se nessun governo ha legiferato sull’intera materia del lavoro digitale. Treves riflette anche sul fatto che i riders di Foodora non si siano rivolti a un sindacato confederale per affrontare la causa a Torino. A suo avviso ciò evidenzia «la difficoltà che il sindacato incontra nel rapportarsi a questi lavoratori». Luigi Sbarra, segretario generale aggiunto della Cisl, chiede «di elevare tutele attraverso maggiore chiarezza legislativa, più contrattazione con le aziende» e maggiori diritti su salario, previdenza, malattia, sicurezza, formazione, maternità.

Sul fronte politico, il gruppo consiliare del movimento 5 Stelle al comune di Torino ritiene che la criticata sentenza sia il sintomo di una «medievalizzazione» del lavoro: «trasforma i lavoratori in burattini in mano a una multinazionale». «Si dice che le sentenze vadano rispettate – dicono – ma non possono essere sempre accettate perché l’impianto della motivazione si richiama a una sentenza della Cassazione del 1991, come se non fossimo in un contesto economico, lavorativo e tecnologico profondamente mutato». Marco Grimaldi, consigliere di LeU in regione Piemonte, sostiene che «comunque la si pensi non credo che le motivazioni della sentenza possano fermare la richiesta di diritti e giustizia che arriva dai lavoratori delle piattaforme digitali».