Nel suo ultimo, recente album Unlearned, Scott Matthew canta i Radiohead, Neil Young, Roberta Flack, Rod Stewart, i Bee Gees, i Joy Division, i Jesus And Mary Chain, Danny Whitten e John Denver. Nei suoi show dal vivo ha inserito in corsa anche Candy Says di Lou Reed. «La sua scomparsa mi ha toccato molto, mi ha riportato alla mia adolescenza, quando, con molte delle sue canzoni sono cresciuto, soprattutto nei mesi in cui sono arrivato a New York dall’Australia, una città che lui ha cantato e saputo raccontare alla perfezione. Come pochi altri ha colto le meraviglie e le malvagità di una città».

La scomparsa di Lou Reed e l’inserimento di Candy Says nella scaletta dei suoi concerti è avvenuta proprio quando Scott Matthew era in Italia, nel bel mezzo di un mini tour di quattro date a Milano, Trieste, Roma e Bologna. Matthew ha la barba lunga, è emaciato al punto giusto, un po’ come Devendra Banhart (ma è un discorso tabù con lui, non sopporta essere paragonato a qualcun altro). Però, con Banhart condivide un certo modo di intendere il nuovo folk, una venatura piuttosto malinconica nell’ugola. «Sono piuttosto felice, lo giuro, specie in questi ultimi tempi, va tutto bene. Però ammetto che trovo naturale cercare l’ispirazione proprio negli eventi tragici e nelle situazioni che mi provocano ansia e dolore. Sono questi i momenti in cui si risveglia il mio animo più romantico».

Classe 1978, originario del Queensland, la regione a nord est del Cananda («Un posto dove non c’era niente, il sogno ricorrente era scappare prima possibile, la meta l’arrivo dell’estate per partire in viaggio», racconta), Scott Matthew ha iniziato la sua carriera di songwriter quando venne in contatto con la compositrice giapponese Yono Kanno, che ha sempre avuto un rapporto privilegiato con i produttori di cartoon, e ha utilizzato anche alcune composizioni di Scott per le sue scritture. «Un’esperienza significativa, non molto diversa da comporre colonne sonore per il cinema, altra esperienza che ho già fatto molte volte e che rifarei. Anche se il mio sogno sarebbe stato lavorare con un regista che non c’è più, anzi uno scrittore prestato al cinema, Alistair McLean. Ha fatto molti film, ma il mio preferito è Dove osano le aquile con Richard Burton e Clint Eastwood».

Per anni Matthew ha frequentato gli ambienti della scena post punk, soprattutto quando, ancora giovane, si è trasferito a New York. Subito dopo ha formato una band, gli Elva Snow con Spencer Cobrin, ex collaboratore di Morrissey. Proprio sull’ex Smith, fra l’altro un suo brano è fra quelli in scaletta in Unlearned, Walker ha qualcosa da aggiungere: «Grinta e personalità, giusto equilibrio tra malinconia e romanticismo. Insieme a Rod Stewart incarna il mio ideale di interprete». Quattro sono gli album che, mollati gli Elva Snow, ha realizzato da solista, spesso caratterizzati dall’alternanza di brani ricercati negli arrangiamenti, e altri, all’opposto, diretti.

Rolling Stone lo ha definito come la perfetta sintesi tra Antony e Devendra Banhart, un po’ è vero, ma solo perché ha un timbro ricercato e inconsueto (Antony) e sta diventando un’icona dell’alt folk (Banhart). Ma, come si diceva prima, non gradisce paragoni. «Non credo di poter essere accostato né ad Antony né a Devendra, ma non lo dico con invidia, anzi, il paragone non mi dispiace. Forse è più semplice cercare delle coordinate per ingabbiare le persone perché non si riesce a definirle nella loro unicità. Preferisco le persone che apprezzano e ricevono stimoli dalla mia musica».

Polistrumentista, l’ukulele e la chitarra e in casa, suona anche il pianoforte, Matthew è un artista completo e maturo, e non è quindi un caso che dopo tre album in cui ha cercato di esprimere la sua creatività nella composizione, ha preferito concentrarsi sull’interpretazione, anzi la reinterpretazione. «Canto canzoni che, da adolescente mi hanno reso cosciente, consapevole di amare follemente la musica, le parole, certi suoni, certe emozioni. Ho pensato fosse il momento di riprenderle e raccontarle».