L’omosessualità ignorata dal calcio. Non un problema, neppure un trend topic. Serve solo per qualche battuta negli spogliatoi. Thomas Hitzlsperger, ex centrocampista della Lazio – sei partite nel 2010 -, con un passato anche in Germania (un titolo nazionale vinto allo Stoccarda) e Inghilterra, ha confessato da poco di essere gay (illegale in 78 Paesi, in cinque c’è la pena di morte) al quotidiano tedesco Die Zelt, spiegando come l’argomento sia anni luce distante dai pensieri del pallone.

Come atleti di altre discipline, ha atteso però la fine della sua carriera, avvenuta lo scorso settembre, a 31 anni. Ma è il primo calciatore di un certo livello a mettere la questione che è sul tavolo da ventiquattro anni: confessava Justin Fashanu, inglese che si sarebbe suicidato otto anni dopo. Ecco parte della confessione di Hitzlsperger: «Essere omosessuali in Inghilterra, Germania o Italia non è un problema, nemmeno negli spogliatoi. La questione nel calcio è per lo più ignorata. Non mi sono mai vergognato di quello che sono. Certo non è sempre facile stare con venti compagni di squadra che iniziano a fare battute sui gay, ma li lasci fare se non sono troppo insultanti. Il problema con il mondo del calcio è che l’intensità, il gioco rude, la passione si adattano male al cliché dei gay che sono femminucce, sono deboli». Hitzlsperger ha anche raccontato di averne parlato con il commissario tecnico della Germania Joachim Loew e con il team manager Oliver Bierhoff, «per fare un passo avanti nella questione gay nel mondo dello sport». Con apprezzamento dal governo tedesco, attraverso il portavoce della cancelliera Angela Merkel, secondo cui «è positivo che parli di qualcosa che per lui è importante, liberatorio».

Anche la federcalcio tedesca e tanti colleghi, come l’ex compagno di Nazionale Lukas Podolski o il «cattivo» del calcio inglese Joey Barton, hanno appoggiato via twitter il coming out di Hitzlsperger. Ma resta irrisolto il nodo delle confessioni degli sportivi solo a carriera finita. Per paura di essere etichettati da spogliatoi verticali e sessisti, magari di finire fuori dal giro che conta. Anche se ci sono casi differenti: lo statunitense Robbie Rogers, ora ai Los Angeles Galaxy (Mls) dopo qualche tempo al Leeds, svelava pubblicamente la sua sessualità qualche mese fa. E lo scorso dicembre faceva notare che nessun calciatore omosessuale l’avesse appoggiato nella campagna anti omofobia nello sport.

Un altro coming out è arrivato da Anton Hysen, figlio di Glenn, ex difensore svedese della Fiorentina di fine anni 80. Intervistato dalla Cnn spiegava: «C’è questa illusione, che ogni calciatore deve essere un macho e avere una fidanzata che fa la fotomodella. Non è accettabile essere un calciatore gay. Ma per quale motivo? Sappiamo correre, sappiamo giocare, sappiamo fare gol. E quindi qual è il problema?».

In Italia il problema pare non ci sia, nonostante il presidente dell’Associazione italiana calciatori, Damiano Tommasi, inviti il calcio «ad affrontare la questione con maturità, senza scadere nel gossip». Tante interviste, nessuno, tra tecnici, dirigenti, calciatori che abbia mai ammesso di aver incontrato un collega gay tra shampoo, docce e armadietti. Niente. Con il presidente onorario di Arcigay, Franco Grillini, che alla Gazzetta dello Sport confessava che in serie A «sono una ventina».

Mentre nel Regno Unito la lotta contro l’omofobia nel calcio ha fatto un piccolo passo avanti nel Regno Unito grazie alla campagna Rainbow Laces, i lacci arcobaleno inviati ai 92 club inglesi e 42 scozzesi professionistici. E non tutti gli atleti si sono mostrati entusiasti per l’iniziativa. Mentre qualche settimana fa il 19enne inglese campione olimpionico di tuffi, Tom Daley, confessava di frequentare un uomo, dopo aver negato settimane prima la sua bisessualità. E negli Stati uniti invece risulta ancora in attesa di un contratto, dopo il coming out nei scorsi mesi in un articolo pubblicato su Sports Illustrated, il cestista professionista Jason Collins.