Più che un tirannicida l’uomo che avrebbe tentato di aggredire Silvio Berlusconi a Saronno, e che forse voleva solo avvicinarlo per chissà quale motivo, sembra essere uno sciroccato. Non che ci volesse molto a capirlo: solo uno squilibrato o Maramaldo in persona potrebbe avercela con l’ex onnipotente nel momento del suo inesorabile e triste declino.

Questione di giorni, Raffaele Fitto battezzerà il suo esercito ribelle con l’improbabile nome «Conservatori e Riformisti». Chissà quale genio avrà scomodato il viceré pugliese per partorire un nome non si sa se più scostante o assurdo. Se il buon giorno si vede dal mattino, quella di don Raffaele sarà una giornata buia ma breve. Lo seguiranno 11 senatori, sufficienti per dar vita a un gruppo parlamentare, e 14 deputati, per i quali sarà invece necessario chiedere la deroga per formare un gruppo. In termini numerici il nuovo raggruppamento cambierà poco in Parlamento. Ai tempi del Nazareno, la nascita di una forza di opposizione avrebbe avuto peso. Con Fi già approdata su quei lidi, serve a poco. Le cose però, al Senato, stanno diversamente nelle commissioni e in conferenza dei capigruppo. L’arrivo di un nuovo gruppo di opposizione altererà equilibri già provati dalla scomparsa di Scelta civica. A Renzi, nel giro di qualche mese, servirà probabilmente un nuovo gruppo, stavolta di maggioranza, per riparare allo spariglio. I famosi “verdiniani” gli serviranno a ben poco. Certo, lasceranno anche loro il relitto azzurro, probabilmente cogliendo l’occasione offerta dal voto sulle riforme a ridosso della pausa estiva. Ma sono tre, e probabilmente al momento fatale si ridurranno a due. Renzi dovrà guardare da qualche altra parte, prima di tutto tra i fuoriusciti dell’M5S. Lo sta già facendo, ma il risultato resta incerto.

Come d’uopo nei momenti di scissione, nei resti dell’armata azzurra volano gli stracci. Ma persino nella rissa d’ordinanza campeggia una vistosa svogliatezza. Fitto parla di «triste epilogo», di «capitolo chiuso». Accusa l’ex capo di «autorottamarsi» e di abbondare in «insulti e bugie che neppure meriterebbero risposta». L’autorottamatore replica ostentando superiorità. «Facciano un po’ quello che vogliono», sibila alludendo a Fitto e ad Alfano, gli ultimi in ordine di tempo tra i tanti delfini, delfinetti e strettissimi collaboratori che lo hanno abbandonato. «Io sono fuori dalla politica», annuncia, ma solo per smentirsi subito. È fuori però resta in campo «per senso di responsabilità», perché ha «un progetto», che «forse è solo un sogno»: quello di fare dei moderati, «indiscutibilmente maggioranza numerica degli italiani», anche una «maggioranza politica». Non è un sogno nuovo di zecca. È la stessa carta su cui puntò con successo 21 anni fa. La differenza è che allora un “uomo nuovo” in grado di unificare, almeno elettoralmente, le diverse anime della destra c’era, ed era lui. Oggi non c’è. Non può essere lui e neppure uno dei tanti delfini o ex delfini che pure inseguono quel miraggio. Basta mettere in fila le facce di Giovanni Toti, Angelino Alfano e Raffaele Fitto per capire che se le speranze della destra sono quelle, tanto vale abbandonare la partita senza neanche provare a giocarla. Del resto persino Berlusconi se ne rende conto. «Se guardo al futuro, un ricompattamento del centrodestra non lo vedo», ammette.

Il disfacimento della destra mette l’Italia nelle mani di Matteo Renzi, campione senza più concorrenti. E tuttavia anche questa sfida senza competizione, vinta in partenza e troppo facilmente, inizia a rivelare un lato preoccupante. I sondaggi dicono che il 31 maggio l’astensionismo potrebbe balzare alle stelle. Senza nulla da votare, senza possibilità di vincere, una parte cospicua di quelli che Berlusconi chiama «i moderati» potrebbe scegliere la giornata al mare.

Per Renzi sarebbe un’ottima notizia, ma solo all’apparenza. Ottenere la schiacciante maggioranza di una minoranza esile del corpo elettorale non è poi una gran vittoria. Ma soprattutto, si sa che in politica i vuoti non restano tali a lungo.