Il suo incarico, spiega «è stato riassorbito in questa nuova fase», ma «non vado al mare, io ci sono». Pier Luigi Bersani torna da Piacenza, dove si era ritirato da giovedì santo, ed è un ritorno in pompa magna. Conferenza stampa da grandi eventi, nella sede del partito – funestata dalle notizie dei tagli ai funzionari – per ribadire che gli spifferi sui possibili passi indietro, dopo il fallimento del suo preincarico, sono colpi a vuoto. Anzi en passant Bersani fa scivolare un «porto il partito fino a congresso», anche se di congresso si parlerà «dopo che si sarà sciolto il nodo del governo». Accanto a lui annuisce Enrico Letta, numero due, che in molti indicano come possibile «premier» non sgradito al Pdl.

Ipotesi lunare, a colpo d’occhio. Bersani «tiene» la linea. Pronto a fare un passo indietro se la sua persona fosse «d’ostacolo» alla partenza della legislatura, ma nel caso bisognerebbe spiegare perché. Perché la linea del Pd resta la stessa. No alle larghe intese, «non intendo fare un governo con le mani legate di fronte all’esigenza di cambiamento». No a governi tecnici, «non credo la risposta possa essere un governo Monti senza Monti», no al ritorno al voto, «sarebbe disastroso per il paese», come chiede il Pdl, ma anche la sua sinistra interna.

Dopo l’omaggio alla correttezza del capo dello stato («Ha fatto quel che poteva e doveva fare, garantire all’Europa e all’Italia una continuità istituzionale e di governo»), non resta che procedere all’elezione del nuovo inquilino del Colle. Su questo Bersani è pronto a dialogare, come impone la Costituzione, e a incontrare Berlusconi, «non ad Arcore o a Palazzo Grazioli ma nelle sedi istituzionali sì. Faremo una ricerca onesta di un punto di equilibrio ma non ci si detti il compito».

Ed è qui il nodo. Il Pd guarda con rispetto al lavoro «informale» e «a tempo» (la sottolineatura è di Napolitano) degli esperti chiamati dal Colle. Ma da oggi, anzi da ieri, il segretario lavora individuare la proposta democratica del nuovo presidente della Repubblica. «Non un nome imposto, ma una rosa di nomi, sullo schema di quello che successe nel 1999, quand’è stato eletto Ciampi», sintetizza l’ex cislino Sergio D’Antoni.

La proposta del Colle ha ottenuto l’effetto del «ribaltone», scrive infatti Claudio Sardo, direttore dell’Unità: nel senso del ribaltamento della priorità dei problemi: «Congelando la crisi, Napolitano ha stabilito di fatto che l’elezione del nuovo presidente della Repubblica precederà la formazione del nuovo governo». In questo caso, butta là in una parentesi il direttore «il centrosinistra ha 480 grandi elettori sui 505 necessari per l’elezione». In questi conti non ci sono neanche i voti di Scelta civica. «Non abbiamo i numeri per eleggere da soli il nuovo presidente della Repubblica entro i primi quattro scrutini e questo aiuta la ricerca di un’intesa», spiega Dario Franceschini a Porta a Porta, ma se l’accordo non ci sarà, il centrosinistra potrà procedere da solo. Ma comunque, «il Pd cerca un candidato di garanzia».

Bastone e carota, dunque , il messaggio è chiaro. Bersani è disponibile a discutere su una rosa di nomi proposta da lui, non il contrario, che invece è quello che fin qui ha preteso Berlusconi. La maggioranza che eleggerà il capo dello stato sarà con ogni probabilità sarà quella che poi eleggerà anche il nuovo governo. Il quale, a differenza di Napolitano, però avrà una freccia in più nell’arco, per convincere un parlamento largamente contrario a ritornare voto: la possibilità di sciogliere le camere. A quel punto la proposta del governo Bersani resta in campo.

Ora però il punto è la rosa dei nomi. Il nome di Prodi, suggerito dalla grande stampa come asso nella manica di Bersani, è stato impallinato duramente dal Pdl. E dal M5S, anche se Grillo in un primo momento sembrava possibilista. Restano in campo tanti altri. Fra i «saggi» di Napolitano ce ne sono almeno due che il Pdl potrebbe digerire: Luciano Violante, storico uomo-ponte col Pdl, e Valerio Onida, che si è schierato contro l’ineleggibilità di Berlusconi.

Più difficile, ma non impossibile, la convergenza – almeno formale e dichiarata – con le 5 stelle. Ieri il capogruppo al senato Vito Crimi si è esibito nell’ennesimo ripensamento: forse era meglio, scrive in un post «affidare il governo a Bersani che con i suoi ministri poteva presentarsi al parlamento e qualora non avesse ricevuto la fiducia poteva continuare, almeno sarebbe stato rappresentativo di una maggioranza relativa e non di una strettissima minoranza come Monti». Grillo lo ha violentemente stoppato: «Bersani è uguale a Monti, di cui ha sostenuto la politica da motofalciatrice dell’economia».

Ma l’episodio la dice lunga sul fatto che alla fine i voti dell’M5S, almeno in parte, non sono così indisponibili. Bersani non ci fa conto, «non li ho mai rincorsi». Ma anche questa è una notizia, per lui.