A una settimana dal devastante doppio attentato che ha squassato la zona più affollata del centro di Mogadiscio, il numero delle vittime continua a salire. L’ultimo aggiornamento fornito dal governo somalo parla di 358 morti, 228 feriti e 56 persone che ancora risultano disperse. Ben 150 le vittime a cui è stata data sepoltura senza che sia stato possibile dare loro un nome. I feriti più gravi, circa 120, sono stati aerotrasportati in ospedali turchi, oltre che in Kenya e Sudan.

Assistenza alle autorità somale, in emergenza non solo sanitaria dopo la strage terroristica più grave nella storia recente dell’intero pianeta, è giunta in varie forme anche da Usa, Italia, Gibuti e Qatar (una delle due esplosioni ha danneggiato l’edificio che ospita l’ambasciata dell’emirato arabo e ferito l’incaricato d’affari di Doha). Ieri anche un velivolo militare etiope carico di aiuti umanitari è atterrato all’aeroporto di Mogadiscio. Ma a distinguersi negli aiuti è stata la Turchia, sempre più coinvolta nelle tormentate vicende somale. Tanto da rendere credibile la tesi circolata in questi giorni, secondo cui il vero obiettivo dei terroristi (ancora nessuna rivendicazione, ma pochi hanno dubbi sulla firma islamista di al Shabaab) fosse la base militare appena costruita da Ankara nella capitale somala e che un intoppo abbia fatto scattare il piano B.

Inaugurata lo scorso 30 settembre, la base ospita già oltre 200 soldati turchi incaricati di addestrare 1.500 effettivi dell’Esercito somalo. L’intenzione è quella di formarne almeno 10 mila da qui all’ottobre del 2018, quando inizierà il ritiro dal paese delle truppe della missione dell’Unione africana in Somalia (Amisom).

Quella seguita alla strage è stata anche una settimana di rabbia, a Mogadiscio. Nei giorni scorsi migliaia di persone con cartelli di protesta e bandane rosse hanno tentato di raggiungere il luogo dell’attentato, ma sono state disperse dalla polizia.