«E ricordò quando Maryan la svegliava alle primissime luci dell’alba per recarsi in riva all’oceano. A quell’ora, il colore del mare si intonava con quello del cielo e l’oceano diventava una vasta superficie rosso fuoco, simile a lava palpitante. Giungevano insieme a una moltitudine di altra gente. Sette religiosi, che portavano altrettanti libri sacri custoditi in un bauletto intarsiato, sedevano in circolo con le gambe incrociate e leggevano il Corano ad alta voce».

RIPRENDENDO a tratti il tono epico sacrale già sperimentato nel recente racconto lungo La danza dell’orice (2020), ma ancorandolo saldamente alla realtà storica e culturale della Somalia degli anni Cinquanta del secolo scorso e corredandolo di personaggi tangibili e concreti, in Le stazioni della luna (66thand2nd, pp. 201, euro 16), Ubah Cristina Ali Farah ci trasporta nella maniera lieve ma solida che la contraddistingue nella sua patria di origine, in un momento cruciale della sua e nostra storia, quella dell’Amministrazione fiduciaria italiana, ribadendo gli inscindibili legami tra due paesi e continenti separati da un mare ma accomunati da travagliati trascorsi in gran parte a noi ancora poco noti. Come nei precedenti Madre piccola (Frassinelli, 2007) e Il comandante del fiume (66thand2nd, 2014), l’autrice mescola sapientemente le componenti culturali multiple della sua identità, cucendole in una lingua che lei considera la sua lingua madre, ma che fu anche la lingua dell’élite somala postcoloniale, e che ora le fornisce uno spazio nuovo, fertile e accogliente di appartenenza e creatività.

L’idea di patria e appartenenza è cruciale anche per Clara, protagonista del romanzo, nata da genitori italiani residenti a Mogadiscio. Costretta, appena adolescente, a lasciare il paese con la madre e il fratello a bordo di una delle famose «navi bianche», vi farà ritorno volontario dopo la guerra in veste di giovane maestra alle scuole elementari per bambini somali, intrattenendosi in lunghe conversazioni con il direttore circa il tema dell’istruzione per le giovani generazioni e la necessità di creare una buona classe dirigente, l’importanza di impiegare la lingua araba per i contatti con il mondo islamico e l’italiano per poter accedere alla cultura occidentale, confrontandosi però anche con il problema che il somalo non sia una lingua scritta e sul suo delicato compito di “traduzione” in senso più stretto e letterale, tra più lingue e culture che devono incontrarsi e imparare a rispettarsi e convivere.

ALTRETTANTO CENTRALE nel romanzo è Ebla, cresciuta nell’entroterra da un anziano padre, astronomo e divinatore tradizionale, che le ha insegnato l’arte interdetta alle donne di leggere le stelle, i pianeti e i segni del cielo, aprendo un affascinante spiraglio su uno spaccato di vita nomade e rurale a stretto contatto con le forze della natura: «Sebbene Ebla non sapesse scrivere neppure il suo nome, dal padre imparò a leggere le stagioni e le stelle, ossia che se la luna si trova sotto l’influsso della stella Skat è prevista burrasca, oppure quando l’Orsa Maggiore affonda la testa all’orizzonte significa pioggia in arrivo. Il momento che preferiva era la festa Dabshid, durante la quale si elaboravano le previsioni più importanti per l’anno a venire. Si accendeva un grande falò e ciascuno saltava sul fuoco il numero di volte corrispondente alla propria età. Si girava per l’accampamento spargendo acqua, per scacciare i demoni e scongiurare la mala sorte». Fuggita da un matrimonio combinato nella Mogadiscio degli anni Trenta con il poeta e camionista Gacaliye, Ebla fu chiamata a fare da nutrice alla neonata Clara, diventando sua «madre di latte» e stabilendo un indissolubile legame. Attraverso Ebla e i suoi figli, Clara adulta si ritroverà coinvolta in prima persona nelle lotte per l’indipendenza del paese e scoprirà il sapore dolce amaro dell’amore.
Ubah Cristina Ali Farah sarà ospite della Settimana Africana della Regione Marche, incontrando il pubblico oggi alle ore 17.30 alla Mediateca Montanari di Fano e domani alle ore 17.00 alla Biblioteca San Giovanni di Pesaro, nell’ambito della quinta edizione del Festival letterario «Narrazioni Migranti».