Dal funambolico incontro tra una novella chassidica e il reportage di un abile cronista viennese, nacque Il figlio del figliol prodigo, il primo romanzo di Soma Morgenstern, scrittore galiziano che aveva trovato approdo nella Vienna imperiale e nella lingua di Goethe. La  antica leggenda narrava di una ‘magica’ attrazione:  un orfano ebreo, cresciuto felice tra cristiani, aveva incontrato un giorno alcuni israeliti festosi e, per un impulso irresistibile, aveva deciso di seguirli unendosi a loro; l’evento ‘attuale’ sul quale scrivere per la «Frankfurter Zeitung» era, invece, il congresso di «Aguda Ysrael», una associazione di ebrei religiosi, che si era tenuto nel 1929 a Vienna. L’attrazione di Morgenstern per una manifestazione ai suoi occhi singolare e l’ebraismo più tradizionale si incontrano in una narrazione costruita con sapienza: in ogni personaggio c’è un po’ della storia dell’autore, in ogni frase l’oscillazione tra la distanza di un intellettuale ‘moderno’ e i temi sensibili della appartenenza, ovunque la domanda sul senso dell’ebraismo quando la fede si appanna.

Si incontrano a questo congresso per caso e in una situazione grottesca  anche i due  protagonisti del romanzo, diversi tra loro come il piccolo orfano e il noto giornalista: sono Wolf Mohylewski pio ebreo di Dobropolje e  suo nipote Alfred, colto e borghese cittadino di una Vienna cosmopolita.

Ci vollero cinque anni perché Morgenstern completasse la storia di questo avvicinamento tra figure così diverse. A Joseph Roth, compagno di esilio e di albergo a Parigi,  affidò nel 1934 il manoscritto: «Da te mi aspetto un giudizio impietoso e sincero» disse. Roth lesse il titolo e ne fu subito attratto perché la parabola del ‘figliol prodigo’ era il tema ideale per uomini che, sradicati, si interrogano sulle possibilità di un ritorno. Roth non seppe aspettare il mattino e, malgrado le sue pose aristocratiche, si precipitò trasandato e affannato dall’amico : «Complimenti, è un capolavoro, un libro magnifico» gli disse. Al giudizio lusinghiero di Roth – presto ridimensionato perché «troppo ebraico» – se ne aggiunsero molti altri: Musil lo apprezzò, Hesse ne fece una entusiastica recensione e Zweig, generoso e influente, lo sostenne con passione: «Tutte le qualità dell’arte – scrisse per la copertina del volume – sono qui riunite: colore, forma, tensione. Questo libro ha il diritto di essere considerato un classico». Fu un grande successo e, nonostante le dure leggi naziste sulla stampa, ebbe una buona diffusione sia tra gli ebrei che tra i gentili. Piaceva la tessitura dei linguaggi, il tema del viaggio, la miscela di ribellione e buoni sentimenti e il riferimento a una parabola evangelica particolarmente frequentata dalla letteratura del primo Novecento: da Rilke che, dopo Gide,  fa del figliol prodigo un decadente che «non voleva essere amato», felice della «intima indifferenza del suo cuore», a  Kafka che in Ritorno a casa lascia il protagonista sulla soglia della dimora paterna, troppo fragile per rischiare un perdono che si sarebbe potuto trasformare in prigione.

Anche nel volume di Morgenstern, Joseph Mohylewsk, il figlio smarrito, non tornerà. Si è convertito ed è morto in guerra testimoniando nel sangue il desiderio di diventare ‘tedesco’. Ad avventurarsi nella Galizia delle origini sarà il suo unico erede, Alfred, uno studente che poco sa del padre e ancor meno di ebraismo. Lo spinge un forte desiderio di appartenenza, come nel  racconto dei chassidim, insieme a una profonda crisi identitaria: vuole essere ebreo [Jude] e non ‘Jud’, si lamenta con il suo tutore, alludendo alla terminologia usata per distinguere  tra convertiti e non convertiti:  «uno che nel migliore dei casi fa dell’apostrofo che gli è stato dato come insulto una stampella ironica con la quale zoppica nella vita. Voglio essere un ebreo, un ebreo con la ‘e’ nel nome».

Alfred decide quindi di seguire a Dobropolje lo zio e il saggio fattore. Qui tra le variegate voci dei correligionari, in una rete di affetti sicuri e guardando al lavoro dei campi potrà infine diventare ciò che potenzialmente era già: un israelita illuminato che, dopo una lunga sosta e superata ogni schematica contrapposizione, inizia un nuovo viaggio: forse un ritorno a Occidente, forse un approdo nella Palestina sionista o in qualsiasi altro luogo dove impegnarsi per il bene comune.

Al romanzo di formazione di Alfred, specchio di una diffusa insofferenza  per la ‘modernità’ e della ricerca di valori inattuali, Morgenstern dedicò altri due volumi, Idillio in esilio e L’eredità del figliol prodigo che compongono quella che è stata considerata la più grande saga ebraica in lingua tedesca. Il primo volume della trilogia, sicuramente il più sorprendente  e appassionante, Il figlio del figlio perduto (pp. 313, € 18,00) viene proposto da Marsilio con la solida traduzione di Alessandra Luise e Sarina Reina e con una nota introduttiva di Wlodek Goldkorn (dispiace che del titolo originale Der Sohn der verlorenen Sohnes venga cancellato il riferimento decisivo a Luca 15,11-32 e si notano alcune approssimazioni di ambito ebraico).

Forse Il figlio del figliol prodigo non è il capolavoro che Zweig esaltava e, rispetto ai romanzi yiddish del tempo, può apparire a tratti esangue e intellettualistico, eppure è affascinante la tessitura cangiante e tesa di antico e moderno, autobiografia e progetto, esilio e territorialità nella ricerca di un autore mai rassegnato.