Dopo infinite udienze durate quattro lunghi anni da quel maledetto 13 maggio 2014, si chiude il processo del disastro minerario di Soma, località nell’ovest della Turchia. Si conclude senza portare giustizia ai familiari dei 301 minatori deceduti in quello che i turchi chiamano non incidente, ma massacro, perché ci sono dei responsabili.

L’alta corte penale di Akhisar ha condannato a pene tra i 15 e i 22 anni di carcere 14 dei 52 imputati, tra cui il proprietario della miniera Can Gurkan e il direttore generale Ramazan Dogru e diversi dirigenti della ditta Soma Komur Isletmeleri.

Ma le assoluzioni di tutti gli altri, compreso Alp Gurkan, proprietario della holding che detiene il controllo di Soma Komur, e le sentenze di condanna molto al di sotto delle richieste della procura, hanno causato sdegno e rabbia.

Il 13 maggio è un giorno colmo di dolore per i cittadini turchi, divenuto giorno di rivendicazioni dei lavoratori ancor più del 1° maggio. Nella miniera di Soma, a Manisa, Turchia occidentale, si stava svolgendo il cambio turno. Poi un’esplosione, a due chilometri di profondità, ha squassato i tunnel, distrutto gli ascensori che conducevano in superficie e inondato le gallerie di fumo. Una trappola che ha bloccato per due giorni quasi 800 lavoratori.

Le famiglie avevano atteso disperate, sperando che i loro cari fossero incoscienti in qualche sala d’ospedale e non in quell’inferno sottoterra.

Un massacro, quello di Soma, che ha portato via 301 vite, la maggior parte per asfissia, e causato oltre 80 feriti. Ma una tragedia annunciata perché, denunciano da allora gli avvocati delle famiglie, «le condizioni di lavoro erano assimilabili alla schiavitù».

lla tragedia si aggiunge l’amara beffa: il 29 aprile 2014, solo 14 giorni prima, il partito repubblicano Chp, su pressione dei sindacati, aveva presentato un’interrogazione parlamentare per indagare sulle condizioni di lavoro nelle miniere di Soma. Interrogazione respinta dal parlamento con i voti della maggioranza Akp al governo.

A gettare sale sulle ferite ancora aperte ci aveva pensato il presidente Erdogan, che aveva così bollato l’accaduto: «Sono cose che succedono. È nella loro natura. Non è possibile impedire incidenti in miniera».

Ma le successive indagini hanno dimostrato innumerevoli contravvenzioni alle norme di sicurezza, tra cui la mancanza di rilevatori di monossido funzionanti, maschere anti-gas senza manutenzione e un impianto di ventilazione fatiscente. I tre giorni di lutto nazionale dichiarati dopo la tragedia non placarono il dolore e la sete di giustizia delle famiglie delle vittime. Né lo faranno sentenze giudicate troppo lievi anche dalla procura.

I familiari hanno protestato con forza, diverse persone hanno accusato malori nel corso dell’udienza ma non sono più potute tornare in aula, bloccate fuori dalla polizia. Hanno proseguito all’esterno, chiedendo furiosamente condanne ben più pesanti. «Cercherò giustizia per i miei due figli, per i miei due orfani. Anche se morissi, non lascerò questo processo», gridava intanto in aula Gulten Kavas, che nel disastro ha perduto il marito Ali. E dai banchi si alzano altre voci: «Loro hanno ucciso i nostri compagni, voi uccidete noi!».

Can Atalay, uno degli avvocati difensori, ha commentato a caldo: «La vita di un lavoratore perito mentre si guadagna il pane non dovrebbe valere così poco». E con lo sdegno sale la rabbia: familiari, avvocati e cittadini solidali hanno annunciato di voler marciare in protesta davanti alla sede del Consiglio superiore dei giudici e procuratori, il più alto organo giudiziario del paese. E alcuni di loro porteranno con sé la terra raccolta nei cimiteri dove i minatori sono stati sepolti, per depositarla davanti all’edificio.

Il giornalista Ahmet Sık, neo-eletto in parlamento nelle fila del partito Hdp, presente all’udienza, scrive: «Quanti di voi sono andati a Soma? Avete visto quelle miniere, che assomigliano a campi di concentramento? Quanti sono disposti a lavorarci sapendo che, se non si muore uccisi dall’interesse, si muore di malattia a causa delle condizioni di lavoro?».