Dag Solstad è uno specialista nel raccontare le vite avventurose, a volte persino vertiginose, di individui del tutto passivi. I protagonisti dei suoi romanzi sono in fondo degli indolenti, o perché lo sono sempre stati, o perché la vita li ha portati ad abbandonare qualunque inclinazione ad affidarsi al destino. Sono passeggeri di una vita in transito, che semplicemente li prende a bordo, senza che loro ne abbiano fatto esplicita richiesta. Possono assistere a un assassinio dietro la finestra di fronte, abbandonare il tetto coniugale – possono cioè essere presi per la giacca dalle cose – ma l’effetto resta lo stesso: la vita se li porta via e loro si fanno trascinare.

Il protagonista dell’ultimo romanzo dello scrittore norvegese, T. Singer (Iperborea, traduzione al solito eccellente di Maria Valeria D’Avino, pp. 313 € 16,50) è un altro campione memorabile della specie. Ovviamente si chiama Singer, è stato giovane, è diventato adulto, è rimasto sempre uguale, ovvero girato dalla parte opposta a quella della vita. Il che non significa, per l’appunto, che nulla sua accaduto nella sua esistenza, ma che lui non ha cercato di farla diventare vita a tutti gli effetti. «Credeva di aver scelto in piena autonomia la sua posa giovanile di distruttivo osservatore della vita. Dai giovani ci si aspetta tutto tranne che siano osservatori della vita. È una brutale negazione della vita».

Guardare senza agire

T. Singer osserva, e questa disposizione è per certi versi il comune denominatore di molti degli uomini a cui Solstad consegna la ribalta. Le donne, viceversa, si sfilano dalla coazione a ripetere meccanicamente la propria parte nel copione del destino. Gli uomini osservano, ma l’osservazione non produce azione: produce una consapevolezza non sufficiente a farsi carico della vita che succede e in cui si trovano coinvolti. La conseguenza è una forma di doppiezza; nel profondo, è una sorta di nichilismo, ma nei fatti prende le forme, o meglio si manifesta come, insincerità.

L’inizio del romanzo è emblematico: «In breve, l’episodio consiste in questo: Singer e A, che è il suo migliore amico, si trovano in un negozio che vende giocattoli. A ha preso in mano un pupazzo meccanico a molla che si presume divertente, e lo carica per mostrare a Singer come funziona. (…) Singer non trova affatto che quel pupazzo a molla sia particolarmente divertente, ma finge di sì, per compiacere A, e lo fa a voce stentorea e con una risata forzata (…). A un tratto Singer scopre che suo zio si trova nel negozio (…). Lo zio guarda Singer. Singer vede che lo zio lo osserva mentre compiace A con voce alta e forzata e con la sua risata artificiosa. Singer si accorge che lo zio sembra sorpreso Singer s’imbarazza». La lunga citazione è una radiografia del personaggio. Così batte il cuore, o meglio il doppio cuore, di Singer, in ogni secondo della vita. Da Oslo, a trentaquattro anni, si sposta a Notodden, paese di provincia, con tante inclinazioni finite in poca cosa, e va a lavorare in una biblioteca. Amore per la letteratura? Non lo si può negare, ma certo il movente primo è andare a sbiadirsi da qualche parte, scegliere un posto dove nessuno si aspetta che diventi un molto: Singer vuole essere poco, quel poco che non si nota e che perdura, un lichene sulla roccia. L’amore, di per sé, non rientra nel quadro: è slancio vitale, chiede di prendere partito, non si dà senza vertigine, senza disponibilità ad affacciarsi sul vuoto. Eppure succede, e se non è amore certo è una compromissione: «Ci si potrebbe domandare – commenta il narratore – come sia stato possibile, per un uomo come lui, farsi coinvolgere in quella spietata intimità che comporta stare lì nudo». Solstad non dà risposta, ma chiarisce che, coerentemente con la passività del suo personaggio, tutto quanto avviene non è per volontà sua. Anzi, il personaggio ha bisogno dell’aiuto dell’autore per non restare sullo sfondo: «In questo particolare romanzo Meretr Saethre è subordinata a Singer, ha un ruolo secondario, e non per volontà di Singer ma dell’autore del romanzo».

Per il resto, ci sarà un matrimonio, la paternità vicaria di Isabella, figlia di Meretr, una esistenza tutto sommato lineare pur con le sue insidie. Ci si metterà poi la vita, con la violenza di una frana, a tentare di staccare Singer dal poco o nulla che si è scelto: resterà vedovo a trentanove anni quando Meretr muore in un incidente d’auto. Senza una plausibile ragione, Singer decide di tenere Isabella, di occuparsi della piccola orfana invece di consegnarla alla famiglia di Meretr, che pure la vorrebbe. Il gesto è fuori da ogni logica: quello tra Singer e Meretr era un matrimonio in crisi, tutto porterebbe a escludere la presa in carico della bambina. Eppure. Singer non lo vuole, ma agisce. Ancora una volta, «Singer non trova che quel pupazzo sia particolarmente divertente, ma finge di sì, per compiacere». Di conseguenza, trasloca a Oslo con la ragazzina. Lasciano la provincia, dove l’osservazione altrui smaschererebbe la finzione, riattualizzerebbe lo sguardo dello zio mentre lui ragazzo rideva falsamente. A Oslo Singer guarda Isabella crescere con una specie di mestizia. L’infanzia si è arrestata alle lamiere dell’auto di sua madre, perciò forse lei pensa che la sua vita possa essere salvata solo andando ad abitarla di nuovo, quell’infanzia: «Era visibilmente molto presa dall’essere bambina e dal fare tutte le cose da bambini (…) ma non rideva mai di gioia». A due passi da lei, Singer osserva la sua tristezza, è contento quando Isabella porta a casa delle amiche, quando non è sola.

Personaggio cecoviano
Più che un romanzo, T. Singer è una parabola – dolente e indolente al tempo stesso – sul tema dell’impostura, sul cosa significhi essere un impostore. Perciò è anche un romanzo, che ha per tema la scrittura. Se la vita è poca cosa, la scrittura forse riuscirà a illuminarla almeno un po’. Non a caso il giovane Singer voleva diventare scrittore. Passa anni a limare un’unica frase che contiene una visione memorabile: è questa la sua dopamina, l’epifania della restituzione, in un bagliore, del senso delle cose.Per certi versi, Singer è un personaggio cecoviano, sebbene meno sincero: la sua sconfitta è impastata di ridicolo e di tragico. Diversamente dalle tre sorelle cecoviane, che vogliono realmente andare a Mosca, sebbene sappiano che non ci andranno mai, e continuano a coltivare un sogno andato a male cui danno il nome di rimpianto, Singer non vuole andare da nessuna parte, però ci va. Poi ne prende atto, ed tutto qui: la finzione – di provare qualche sentimento – gli è servita almeno a fargli compiere un’azione. «Così è la vita di Singer, scorre via senza che ci sia bisogno di rimarcarne il passaggio…»