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Sologub artefice del male

Sologub artefice del maleKonstantin Somov, «Ritratto di un giovane uomo con i baffi», 1926

Dalla Russia di inizio Novecento Inventato l’eroe negativo perfetto, lo scrittore russo si adopera a smentirlo, giustificando ogni sua devianza e avviando un’altra trama sulla follia: «Peredonov, il demone meschino»

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 19 gennaio 2020

Quando la noia di un torpido universo provinciale sposa la palude interiore, per giunta con squarci di ghiribizzo e sinistra ispirazione, il professore di lettere del liceo locale beve un sorso di caffè, si gira e lo sputa contro il muro, poi si alza e assieme alla compagna e agli amici stampa pedate contro i parati dell’appartamento in affitto: tanto stiamo per andarcene, pensa, vediamo l’effetto che fa.

Torvo, egocentrico fino all’autoparodia, iracondo, cinico, gretto, squallido, il professore in questione è l’eroe (eponimo, per la verità, solo nella nuova traduzione di Silvia Carli – Peredonov, il demone meschino, Fazi, pp. 370, € 18,00) di uno dei romanzi più enigmatici ed emblematici del simbolismo russo, Melkij bes di Fëdor Sologub, poeta e prosatore di solipsistica oltranza, autore anche di drammi messi in scena dal giovane Mejerchol’d, ma famoso nel mondo soprattutto per questo eterodosso classico.

Un frizzo sinistro
Peredonov è il ritratto del male assoluto in formato tascabile e quotidiano: ogni suo gesto non è mirato che a oltraggiare e umiliare, in un caotico calderone dei più cupi e ignobili sentimenti, il cui ribollire, per la verità, resta quasi a tutti gli effetti virtuale, non travalicando mai una viperesca verbalità e un astio cosmico, salvo veicolare represse pulsioni omosessuali in chiave sadica, con visite a domicilio degli allievi più discoli da riabilitare tramite salvifiche fustigazioni.

Oggetto primo e costante dell’acido pungolo dei suoi lazzi è la cugina e convivente Varvara, suo degno côté femminile, donna di età indefinibile con il volto consunto dai vizi incastrato sopra un meraviglioso corpo da ninfa, bieca, terragna ma fin patetica nella sua ardente e bistrattata passione. In concorrenza con tutte le ragazze da marito della cittadina, Varvara vorrebbe farsi sposare dall’aitante e agiato professore, intento finalmente raggiunto solo grazie alla promessa – corroborata da lettere falsificate – dell’intercessione di una principessa sua conoscente per il posto d’ispettore tanto bramato da Peredonov, che è roso, com’è ovvio, anche dalla più feroce ambizione.

Tutta qui la trama, nulla più che il pretesto per un sabba minimo, dilagante e pervasivo, che coinvolge gli amici più intimi della coppia e poi più o meno tutti i paesani, in una catena di vessazioni, insulti, calunnie, resse, risse e accapigliamenti, in stanze asfittiche e maleodoranti, tra fiumi di alcol e inesauribili pettegolezzi.

C’è qui, e in tutti i migliori luoghi del romanzo, un brivido inspiegabile e contagioso, un frizzo sinistro, lievito primo per l’apoteosi, affidata a vividi mezzi espressivi, della tipicamente russa volgarità autocompiaciuta, la proverbiale pošlost’, forza becero-ctonia di un’energia a tratti travolgente, come nella disquisizione di Peredonov, finalmente disposto alle nozze con Varvara, sulla liceità di aurei bracciali da nozze, o nella seduzione di un efebico quindicenne, oggetto pure delle recondite brame di Peredonov, da parte di una sorta di sacerdotessa pagana tutta veli e aromi, molto di maniera e molto fin de siècle, che professa un rusticano dionisismo: «Amo il corpo forte, nudo, giovane, capace di godere», o anche «solo nella follia possono esistere felicità e saggezza».

Se il pregio maggiore del tessuto narrativo sono i dialoghi serrati e frenetici, così come certi lampi di studiata discrasia, con reazioni del tutto inadeguate agli stimoli, più pesanti e involute appaiono alcune prolisse tirate, che lasciano un sentore un po’ fuori luogo d’onniscienza.
Sono episodi, ma certo nessuno dei personaggi appare mai focale, finché non ci si rende conto che attorno a Peredonov si va dissimulando una percezione della realtà sempre più alterata, e che all’ossessione per il malocchio e alla mania di persecuzione subentra, in maniera sempre più inequivoca, la pazzia.

Inventato, insomma, l’eroe negativo perfetto, l’autore lo disgrega, lo smentisce con la più tipica e surrettizia motivazione di ogni devianza. E prende corpo, quindi, un secondo romanzo sulla pazzia, in sé non meno affascinante, tanto più se il cupo baratro dell’individuo si interseca, con dilettevole attrito, alla babelica gazzarra collettiva (con particolare effetto le tinte sono giustapposte nella sarabanda prefinale della festa in maschera).
Una atroce ineluttabilità emana così dal delitto dell’epilogo, sacrificio, a tutti gli effetti rituale, dell’amico Volodin, fin dall’inizio sistematicamente paragonato nel fisico e nella mimica a un montone. Ma il vero specchio testuale della pazzia sta nella sua proiezione fisicizzata, un grigio esserino muto e senza volto, lercio e fumoso, che rotola e svolazza, s’intrufola senza remore sotto la tonaca del prete, perseguita Peredonov con l’accanimento di un indocile animale domestico, e presentatasi al ballo mascherata – perché è comunque di essenza femminea – lo induce a dar fuoco alla sala.
Si chiama nedotykomka, neologismo reso in italiano come Inafferrabile (ma c’è anche la suscettibilità e l’idea di qualcosa di intoccabile): il suo ruolo di simbolo oscuro e, appunto, incoercibile è la vera chiave del romanzo, che non si esaurisce nella pazzia, bensì prevede la possibilità di una presenza concreta, palpabile, del male metafisico, tanto che lei stessa, la nedotykomka, potrebbe, per proprietà transitiva, aspirare alla funzione di demonietto nominato nel titolo. Questa dimensione polisemica va però perduta nell’edizione italiana per effetto dell’intrusione piuttosto indebita del nome Peredonov in un paratesto spoglio, in ossequio alla corrente e disdicevole moda, di apparato critico: un neo che in nulla inficia la traduzione agile, disinvolta e molto convincente di Silvia Carli.

Lo spirito del disordine

Grazie alla nedotykomka Sologub si inserisce a pieno titolo nella vivacissima tradizione demonologica della cultura russa, che va da Lermontov e Dostoevskij al geniale pittore a lui contemporaneo Vrubel’, confermandosi a ogni effetto uomo del suo tempo, intento a scrivere l’epopea mistica – di molto minor successo – La leggenda in creazione. E può certamente lasciar spazio, nell’ampia tavolozza interpretativa che è la vera ricchezza del libro, anche a oscure forze superiori, magari arcane e ataviche, forse le stesse a cui viene ricondotto il gusto unicamente russo per lo sfascio, la violazione dell’ordine da cui siamo partiti: «essa si esprimeva nell’appagamento a danneggiare e a distruggere oggetti, a spaccare con l’ascia, a tagliare con la lama nella distruzione delle cose esultava l’antico demone, lo spirito del disordine primitivo, del caos arcaico».

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