Ciclicamente, dal definitivo ritorno dei fucilieri Salvatore Girone e Massimiliano Latorre in India che ha concluso l’imbarazzante tira e molla orchestrato dall’ex ministro Giulio Terzi di Sant’Agata, torna roboante sulle pagine dei giornali italiani lo spauracchio dell’applicabilità della pena di morte nella vicenda legale che, ormai da quasi due anni, coinvolge i due sottufficiali di Marina. L’India è un paese in cui vige la pena capitale, nonostante nell’ultimo periodo le voci a supporto di un’abolizione si siano fatte più insistenti in certi ambienti intellettuali, ma viene applicata molto raramente, per una consuetudine legale che si rifà alla regola del «rarest of the rare». Significa che nel paese i casi passibili di pena di morte – tra cui spiccano omicidio e attentato alla sicurezza nazionale – devono rientrare in una categoria di estrema rarità e gravità.
Negli ultimi vent’anni l’India ha eseguito quattro condanne a morte; per dare un termine di paragone realistico da affiancare al caso Enrica Lexie, è interessante elencare i criminali sentenziati alla gogna indiana. Nel 1995, per impiccagione, viene «giustiziato» il serial killer Auto Shankar – conducente di riksha a motore – colpevole di aver ucciso sei ragazze minorenni, cremandone i corpi e disperdendone le ceneri nella Baia del Bengala. Nel 2004 è la volta di Dhananjoy Chatterjee, guardia giurata bengalese condannata per aver stuprato ed ucciso Hetal Parekh di 14 anni.
Ajmal Kasab, terrorista pakistano della cellula Lashkar-e-Taiba, faceva parte del commando di dieci uomini che il 26 novembre del 2008 attaccò il centro della capitale finanziaria indiana, Mumbai; in sessanta ore di terrore, asserragliati nel Taj Mahal Palace Hotel, i terroristi islamici uccisero 166 persone, di cui 26 stranieri. Unico sopravvissuto all’intervento delle teste di cuoio indiane, Kasab è stato impiccato il 21 novembre del 2012. Destino che pochi mesi dopo – 9 febbraio 2013 – fu riservato ad Afzal Guru, indiano kashmiro accusato di aver preso parte alla pianificazione dell’attentato al parlamento indiano del 2001 sul quale, ancora oggi, persistono i dubbi circa la correttezza del procedimento penale a suo carico. L’ipotesi di omicidio – colposo o volontario che sia – a carico di Latorre e Girone, secondo numerose precisazioni ufficiali da parte del governo indiano, non ricade in questa casistica. Il rischio della pena di morte è inesistente. Lo ha spiegato in modo cristallino l’attuale ministro degli Esteri indiano Salman Khurshid – ex avvocato di fede musulmana – quando lo scorso 22 marzo, durante una sessione parlamentare presso la Camera bassa (Lok Sabha), aveva dichiarato: «Secondo una giurisprudenza indiana largamente applicata, questo caso non ricade nella categoria delle materie che richiedono l’applicazione della pena di morte, e cioè nei casi rari tra i più rari». Stesse identiche parole contenute nella «lettera di rassicurazione» fatta pervenire alla Farnesina il 21 marzo 2013 dal Ministero degli Esteri indiano, con un invito a «non preoccuparsi».
La storia dell’applicazione della pena capitale nel passato recente indiano, con le rassicurazioni ufficiali da Delhi e al trattamento eccezionale riservato ai due fucilieri di Marina – che non hanno mai fatto un giorno di carcere, alloggiando in guesthouse o hotel a cinque stelle e hanno potuto godere di ben due licenze speciali per rientrare in Italia, fatto senza precedenti nel sistema legale indiano – sarebbero dovute bastare per considerare l’ipotesi di impiccagione per i due marò una questione irrealistica e chiusa. La presunzione di volontà di accanimento da parte degli inquirenti indiani – molto più preoccupati di chiudere il caso prima delle prossime elezioni politiche del 2014 – è un prisma fuorviante che restituisce all’opinione pubblica italiana una realtà dei fatti inconsistente e mistificatoria. Dopo il sensazionalismo e l’approssimazione di molta stampa qui in Italia, speriamo che le ennesime smentite avanzate ieri dal ministro Khurshid, costretto a ripetersi ormai a scadenza regolare, riescano finalmente a fugare ogni dubbio. Una volta per tutte.