Dall’inizio delle mobilitazioni in tutta la Colombia, lo scorso 28 aprile, la popolazione di Cali ha salutato l’entrata in città dei camion strabordanti di persone con bandane al collo e bandiere rossoverdi sventolanti, la Guardia Indigena del Cric, il Consiglio Regionale Indigeno del Cauca che riunisce più organizzazioni comunitarie in lotta per difendere i loro diritti e i territori in cui vivono. Così come fecero durante lo sciopero nazionale del 2019 e quello del 2020, anche quest’anno sono arrivati a dare sostegno alla popolazione urbana.

Ma questa domenica la carovana umanitaria che accompagnava le manifestazioni nella zona di Jamundí, a Cali, è stata attaccata da gruppi armati, protetti dalle forze speciali di polizia dell’Esmad. Il bilancio è di otto persone ferite da armi da fuoco, secondo quanto riportato dall’Associazione dei Cabildo Indigeni del Nord del Cauca – Acin. È l’ultimo episodio di gravi violazioni dei diritti umani che quotidianamente si registrano in Colombia e che si sono intensificate dall’inizio delle proteste, ininterrotte da ormai da quasi due settimane.

CALI, UBICATA NELLA REGIONE della Valle del Cauca, è stata fin da subito l’epicentro delle mobilitazioni che stanno mettendo a dura prova la tenuta del governo di Ivan Duque. La repressione nella città vallecauna è stata particolarmente brutale, come a voler mandare un segnale al resto nel Paese. Delle 47 persone assassinate dall’inizio dello sciopero, 35 sono state uccise a Cali secondo gli ultimi dati forniti dalle ong Temblores e Indepaz, che registrano le violenze di polizia, militari e gruppi di civili armati.

A livello nazionale si contano circa mille arresti arbitrari, più di 500 persone scomparse, centinaia di feriti, diversi con lesioni oculari, oltre dieci casi di violenza di genere e attacchi a membri dei gruppi umanitari.

Edilson Monroy Machado, che partecipando alle manifestazioni come attivista dei media locali, spiega che le proteste a Cali «sono iniziate con otto diversi punti di incontro dove sono state bloccate le strade e gli accessi alla città, ma già dal secondo giorno di mobilitazione i blocchi si sono moltiplicati, la gente ne ha creati di nuovi spontaneamente». I cortei pacifici e allegri, accompagnati dai balli e dalla musica che caratterizzano la cultura della capitale mondiale della salsa, sono poi degenerati in scontri, bruciati diversi mezzi di trasporto, saccheggiati negozi e ristoranti, prese di mira le istituzioni pubbliche e le banche.

È IL RIFLESSO DELLA RABBIA accumulata da una popolazione che ha subito l’esclusione, il rapido impoverimento e l’aumento della disuguaglianza sociale negli ultimi anni. Secondo i dati del Dane, tra il 2019 e il 2020 la povertà è aumentata dal 21,9% al 36,6%; oggi dei 2 milioni e mezzo di persone che abitano a Cali circa la metà, 934mila, vive sotto la soglia di povertà, mentre la povertà estrema ha subito un’impennata dal 5% al 13% durante l’ultimo anno. Edilson osserva che a scendere in piazza sono stati soprattutto i giovani dei quartieri popolari, assieme ai venditori ambulanti che si sostengono con ingressi minimi e precari, e ai lavoratori costretti ad accalcarsi sui mezzi di trasporto per raggiungere i posti di lavoro in un contesto di emergenza sanitaria che ha già causato più di 74mila morti per Covid-19.

SECONDO LO SCRITTORE Juan Cardenas, originario di Popayan, la capitale del Cauca, quello che sta succedendo a Cali è «un’accumulazione storica di lotte e resistenze collettive che sembrano aver incontrato, finalmente, un’occasione per riaffiorare all’unisono». Nel suo brano «Il popolo unito di Cali è il terrore dei potenti», pubblicato sulla rivista Jacobin America Latina, descrive il panorama della Valle del Cauca come «un mar morto di fibra verde» composto dai campi di canna da zucchero che si estendono «a perdita d’occhio». Le coltivazioni intensive di caña minacciano i territori dei popoli indigeni e offrono riparo per le coltivazioni illegali e le rotte del narcotraffico. Quando scoppiano gli incendi sulla terra umida riaffiorano «denti, frammenti di ossa e pezzi di indumenti» e la cenere nera che si sprigiona «galleggia nelle piscine dei ricchi e impregna le lenzuola dei poveri».

Cardenas racconta gli sforzi degli imprenditori locali nel diffondere tra i lavoratori dei campi di canna da zucchero astio e pregiudizi etnici verso gli indios, le comunità dei popoli originari, per impedire il consolidarsi di alleanze tra i vari gruppi sociali oppressi. Esattamente quello che sta succedendo in questi giorni a Cali e in gran parte della Colombia, dove alla chiamata dei sindacati hanno risposto collettivi femministi Lgbtq, organizzazioni studentesche, afrodiscendenti, contadine e indigene.

IN QUESTO MOVIMENTO VARIEGATO e trasversale le organizzazioni indigene sono state subito protagoniste. Attivisti del popolo Misak hanno inaugurato lo sciopero abbattendo la statua del conquistador Sebastian de Belacazar e hanno replicato una settimana più tardi con quella di Gonzalo Jimenez de Quesadas. Oltre 5mila componenti della Minga Indigena – che organizza e porta avanti le iniziative politiche del Cric – presenti a Cali, sono riusciti a sventare attacchi armati alla popolazione, smascherato agenti infiltrati che cercavano di di alimentare le violenze, hanno organizzato incontri con altri soggetti per cercare uno sbocco politico all’insurrezione in corso.

Dalla Minga Indigena viene infatti la proposta di un Piano per la Vita che prevede il rafforzamento dei diritti economici, politici e sociali, la difesa della vita e del territorio e la costruzione di una pace reale. Una proposta di alternativa politica che rappresenta la critica più strutturata e radicale al regime di guerra e sfruttamento di Ivan Duque e Alvaro Uribe Velez. Come denunciato dalla Onic – l’Organizzazione Nazionale Indigena della Colombia – negli ultimi giorni la tensione e le violenze si sono intensificate proprio nei confronti delle delegazioni della Minga indigena riunite a Cali.

LO SCORSO 2 MAGGIO le organizzazioni politiche di Cali e dalla Valle del Cauca hanno lanciato l’invito ad estendere lo sciopero ad oltranza dopo il ritiro della riforma tributaria, prima ragione della mobilitazione, trasformando la vertenza in un movimento che chiede le dimissioni del presidente e la fine delle violenze contro la popolazione.