Gennaio 2013: McDonald’s annuncia 3mila assunzioni nel giro di due anni. Parte così una veemente campagna promozionale, i vertici parlano di un colossale «piano di investimenti» che comporterà un «allargamento dell’organico». Una buona notizia, all’apparenza, niente ambizioni da grandi chef, ma almeno è qualcosa. E i numeri sono da capogiro: il 94 percento dei dipendenti è assunto in maniera stabile, il 71 percento addirittura a tempo indeterminato, gli altri sono apprendisti. Roba allettante, molto allettante.Troppo. E infatti la Filcams Cgil trovò subito il bandolo della matassa: «l’80 percento dei lavoratori, non certo per scelta, ha un contratto part-time di poche ore settimanali, con il sistematico obbligo di prestare servizio in orario notturno e domenicale o festivo».

Altro che paradiso. E ancora: di tutte le grandi multinazionali, McDonald’s è una delle pochissime che non ha mai varato un contratto aziendale per definire turni, ferie, benefit e condizioni di lavoro. In pratica, se entri hai uno stipendio, ma non hai garanzia alcuna.
Un grande classico: diritti o reddito? L’eterno dilemma, soprattutto per i giovani, si risolve con un’alzata di spalle, e la serena consapevolezza che non sarà una passeggiata. Ma il conto corrente piange sempre, e dire di no diventa affare complicato. La precarietà è una condizione esistenziale, prima che economica.

La risposta di McDonald’s alle accuse è sempre la stessa: la disoccupazione giovanile è ormai al 40 percento, e chi si oppone a questo modello è a tutti gli effetti complice della crisi economica.

Attualmente, il colosso del fast food dà lavoro a oltre 160mila persone in Italia, con una media annuale di 140 milioni di panini serviti ogni anno (in crescita). Dietro tutto questo, dietro i sorrisi di Ronald McDonald e dei banconisti costretti ad essere felice, però, c’è una macchina enorme. Si assumono ingranaggi. Succede solo da McDonald’s.