Coi buoi già da tempo scappati, il ministero del Lavoro ad un mese dalle elezioni si accorge del problema «contratti pirata». Dopo non aver mosso un dito per evitare i casi eclatanti come Castelfrigo – l’azienda che ha usato coop spurie per taglieggiare i diritti dei lavoratori – così come i casi di interi settori come pulizie e sanità privata in cui associazioni di impresa hanno sottoscritto contratti con sindacati sconosciuti per abbassare salari e diritti di centinaia di migliaia di persone, il 25 gennaio il capo dell’Ispettorato del ministero del Lavoro Paolo Pennesi «sotto impulso della politica» ha preso carta e penna per chiedere a tutti gli ispettori «specifiche azioni di vigilanza». L’oggetto della Circolare 3/2018 è proprio «la mancata applicazione dei contratti collettivi sottoscritti da organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale – attività di vigilanza».

La patata bollente del rispetto dei contratti viene quindi passata nelle mani dei già disastrati ispettori del lavoro alle prese con la riunificazione fra Inps, Inail e ministero voluta dal Jobs act a costo zero. Sono pochi (circa 4.500 rispetto ai 6.300 dipendenti del nuovo Ispettorato nazionale del lavoro) e non hanno neanche i soldi per la benzina, ma da qualche giorno oltre a dover combattere per la sicurezza sui luoghi di lavoro devono far applicare le leggi disattese dal ministero stesso.

Dal 2012 i contratti nazionali sono aumentati del 60 per cento, passando da 549 a 868. Il dato è del Cnel che conferma come solo il 33 per cento è firmato dalla Cgil, Cisl e Uil. Confindustria da parte sua ne firma solo il 14 per cento, a conferma della sfarinatura della rappresentanza tra le imprese. Con picchi spaventosi in settori come il commercio: 192 contratti di cui solo 23 firmati dai confederali. Oppure il caso recente (aprile 2017) delle cooperative socio-sanitarie sull’assistenza residenziale agli anziani.

Nella circolare Pennesi parla di «segnalazioni pervenute a questo ufficio» e poi ribadisce la normativa vigente: «l’ordinamento riserva l’applicazione di determinate discipline (ad esempio la deroga ai minimi salariali, ad orari e straordinario, a permessi e ferie, ndr) alla sottoscrizione di contratti collettivi dotati del requisito della maggiore rappresentatività». Se manca questo requisito «si dovrà considerarli come del tutto inefficaci, adottando i conseguenti provvedimenti: recuperi contributivi, diffide accertative».

Solo alla fine la circolare prospetta una sanzione forte: «ciò potrà comportare la mancata applicazione degli istituti di flessibilità previsti» dal Jobs act e, «a seconda delle ipotesi, la trasformazione del rapporto di lavoro in contratto a tempo indeterminato». Una misura che suona quasi come una promessa elettorale. Che, come tale, non sarà mantenuta.