«Difficilmente il prossimo 22 settembre la Linke confermerà il risultato del 2009 (11,9%), ma il rischio di un’implosione del partito è scongiurato: i nuovi segretari, Katja Kipping e Bernd Riexinger, stanno facendo un ottimo lavoro». Mario Candeias è soddisfatto del nuovo corso della forza social-comunista. Vicedirettore dell’Istituto per l’analisi sociale del think tank del partito, la Fondazione Rosa Luxemburg, lo studioso 44enne guarda oltre la scadenza del voto: «Dopo una fase di crisi dovuta a divisioni interne dettate da personalismi, ora la Linke si è rimessa in moto. Ha ricominciato a incontrare regolarmente movimenti sociali, sindacati e intellettuali. E c’è di nuovo un dibattito strategico: insegna proprio Rosa Luxemburg che impegnarsi solo nella politica del giorno per giorno conduce sempre a posizioni subalterne. Abbiamo finalmente imparato a confrontarci, fra radicali e moderati, come si è visto nella discussione sulla fine dell’euro innescata da Oskar Lafontaine».

Sul manifesto ne abbiamo parlato, ma vale la pena di tornarci su. In uno studio commissionato da voi della fondazione Luxemburg, gli economisti Heiner Flassbeck e Costas Lapavitsas hanno dato a ragione a Lafontaine. Lei, Candeias, è di un’altra opinione: perché?

L’analisi di Flassbeck e Lapavitsas è giusta: se si va avanti così, il progetto dell’euro fallisce. Non condivido le loro conclusioni, perché il ritorno alle divise nazionali avrebbe conseguenze negative per tutti i Paesi, a partire dal nostro: i prodotti tedeschi diventerebbero carissimi e non più esportabili. Mi convince la posizione che ha adottato la Linke: non chiediamo la fine della moneta unica, ma la fine dei memorandum della troika, il controllo del movimento dei capitali e nuove istituzioni democratiche per l’Unione europea. Insomma: né sciovinismo anti-europeo, né europeismo acritico.

Quando parla di sciovinismo anti-europeo pensa anche a forze che nel parlamento di Strasburgo siedono con voi nel gruppo della Sinistra unitaria (Gue), come i comunisti greci (Kke) e portoghesi (Pcp)?

No, io non considero anti-europei i partiti o gli intellettuali di sinistra che propongono l’uscita dall’euro. Ho la massima comprensione per chi, in una situazione di emergenza, prende in considerazione anche la fine della moneta unica o ipotesi più radicali. Il punto è utilizzare quest’arma di pressione sul resto dell’Ue – se necessario – al momento giusto. Non solo: prima di assumere posizioni astratte, bisogna prendere in esame i rapporti di forza che condizionano gli attori che dovrebbero farsi carico di portare a compimento scelte come quella. Il problema, insomma, è strategico: non bastano le proposte, serve la forza per produrre una rottura. Rottura che può solo venire dalla sinistra del Sud Europa, da noi supportata. Ma nel modo giusto.

In questo processo vede un ruolo anche per i partiti socialdemocratici e verdi?

Le rispondo limitandomi alla Germania. Le voci critiche negli altri due partiti non mancano, ma c’è un problema: tutte le volte che si è trattato di votare al Bundestag le misure proposte dal governo di Angela Merkel per affrontare la crisi, Verdi e Spd hanno sempre votato sì. E questo rende molto difficile sviluppare un lavoro politico comune.

A proposito di crisi europea, da poco è stato tradotto in italiano il libro sulla «crisi del capitalismo democratico» del sociologo tedesco Wofgang Streeck, «Tempo guadagnato» (Feltrinelli), che sta suscitando molto interesse (il manifesto lo ha recensito il 7 agosto). Cosa pensa della sua tesi a favore di un ritorno alla dimensione dello stato nazionale?

Innanzitutto va detto che Streeck è stato uno dei cervelli della Agenda 2010 (l’insieme delle «riforme» economiche del governo Spd-Verdi di Gerhard Schröder, ndr): uno di quelli che andavano dicendo che il modello dello stato sociale su base nazionale è superato. Adesso nota che il suo progetto è fallito: una dichiarazione di bancarotta della socialdemocrazia, sulla quale sarebbe bene che tutti i socialdemocratici riflettessero. Streeck lo fa, ma senza il dovuto grado di autocritica. Sulla sua tesi finale, poi, non sono d’accordo: tornare indietro ai fondamenti dello stato sociale su base nazionale dal punto di vista strategico non è un’opzione valida.

Nel nostro Paese si fa un gran parlare di «modello Germania», con argomenti simili a quelli usati da Merkel in campagna elettorale…

Il Modell Deutschland esiste, ma con un significato profondamente diverso. Per i nostri avversari, la Germania sarebbe l’esempio positivo di un Paese che non ha subito la crisi grazie alle «riforme» fatte de Schröder e poi gestite da Merkel. Dal nostro punto di vista, invece, sono proprio quelle misure ad avere innescato la crisi, determinata dalla fortissima polarizzazione della ricchezza prodottasi negli ultimi 10 anni. Si pensi che nel settore dei salari più bassi c’è stata una riduzione dei guadagni in termini reali del 30%: quello che la Grecia sta vivendo ora come terapia shock, noi lo abbiamo vissuto lentamente, scendendo gradino dopo gradino. A chi dice che la Germania è un modello positivo, poi, vorrei far notare un’altra cosa.

Quale?

Tutti sappiamo che il governo tedesco conduce una politica orientata all’esportazione: essen

Se è vero che anche in Germania, come denuncia la Linke, dilaga il precariato e aumenta la povertà, perché non si vedono mobilitazioni?

Con questa gestione della crisi, il governo è riuscito a legare a sé ampi settori delle classi subalterne. Un esempio è la Ig-Metall, la più importante federazione sindacale tedesca, che è stata pienamente partecipe di questo modello orientato all’esportazione: le nostre auto si vendono in tutto il mondo. Quindi il potenziale di protesta interna è ridotto. Per non parlare di un possibile fronte comune europeo, quasi impossibile: gli interessi difesi dal sindacato metalmeccanico tedesco sono completamente diversi da quelli difesi in Francia o Italia. La giornata di mobilitazione europea dello scorso 14 novembre è stata importante, ma ha riguardato solo l’Europa meridionale: a Berlino c’erano trecento persone davanti alla Porta di Brandeburgo. Il cambiamento, insisto, non nascerà certo qua, ma nel Sud Europa.

Il potenziale di protesta in Germania forse si ridurrà ancora di più, se è vero che siamo all’inizio di una fase di crescita, come dicono alcuni interpreti degli ultimi dati Eurostat sulla congiuntura…

Su quei dati si è fatta solo propaganda. Se guardiamo lo sviluppo dal 2000 in poi, vediamo che il Pil è cresciuto di meno dell’1%. La produttività ristagna, anche l’export cala, perché i Paesi emergenti frenano anche loro. Celebrare adesso che nell’ultimo trimestre cresciamo dello 0,5% senza considerare il livello da cui partiamo è ridicolo. Detto ciò, bisognerebbe capire che, al di là del Pil, esistono le condizioni di vita delle persone. E questo, in realtà, deve portare a chiederci se l’idea della crescita permanente abbia senso.

Il paradigma della crescita va messo in discussione, lei dice. Il futuro della sinistra è rosso-verde?

Il rinnovamento della sinistra di matrice marxista passa attraverso il confronto con l’ecologismo. Il dramma è che questo rinnovamento della sinistra, del quale i Grünen sono stati protagonisti negli anni Ottanta, non è andato per il verso giusto: dopo un buon inizio, la necessità di rendere «appetibili» i temi ecologisti ha fatto sì che il potenziale critico dell’ambientalismo sia stato integrato nel sistema. E quindi si è consumato il divorzio tra chi continua a collocarsi nella tradizione del movimento operaio e chi ne è fuoriuscito. Per poter assumere una posizione autonoma nei confronti della modernizzazione ecologica, noi ragioniamo attorno all’idea di socialismo verde. La domanda deve sempre essere: a vantaggio di chi avviene la modernizzazione ecologica? Insomma: ambientalismo e critica del capitalismo devono stare insieme, affrontando apertamente, in modo dialettico, le contraddizioni che sorgono.