«Vieni avanti…parcheggia a destra. Il serbatoio dell’acqua è da quel lato». Tareq Yazji indica dove fermarsi all’autista dell’autobotte. L’uomo ferma l’automezzo e con gesti rapidi allunga un tubo e lo aggancia alla cisterna dell’abitazione. Più indietro i figli di Tareq si preparano a riempire tre grosse taniche. «Va avanti così da anni – ci spiega l’uomo – non abbiamo l’acqua potabile e dobbiano rifornirci con le autobotti. I bombardamenti (israeliani del 2014) hanno aggravato la situazione. In questa zona, tra Nusseirat e Khan Yunis, le autorità non sono ancora riuscite a riparare completamente la rete idrica. In ogni caso – aggiunge – quella che esce dai rubinetti serve solo per lavare, non si può bere». Tareq, sua moglie e i figli, come gran parte dei palestinesi di Gaza, bevono acqua filtrata. Circa l’85% degli abitanti della Striscia fa riferimento ai 150 impianti privati che filtrano l’acqua troppo salata di Gaza e la rendono potabile, o meglio “quasi” potabile. Studi recenti effettuati da Ong che operano a Gaza hanno messo in luce che il 46% dell’acqua filtrata è impura a causa di microrganismi presenti nelle autobotti
e un altro 20% a causa dei serbatoi vecchi e malandati usati dalle famiglie. Ciò che resta presenta altre impurità.

Tirando le somme, gli studi dicono che i palestinesi di Gaza hanno solo il 3% di acqua idonea al consumo umano. Bevono quella filtrata ma impura perchè non possono farne a meno. Poche centinaia di famiglie hanno la disponibilità economica di comprare ogni giorno l’acqua minerale per dissetarsi. Altre possono farlo occasionalmente , le rimanenti bevono l’acqua distribuita dalle autobotti. Il mese scorso Mazin Gunaim, capo dell’Autorità Palestinese per l’Acqua (Pwa, Palestinian Water Authority), ha rivelato che già alla fine di quest’anno la falda acquifera di Gaza non sarà più sfruttabile a causa della concentrazione di sale, dovuta in gran parte allo sfruttamento che per anni è andato oltre le possibilità, per le infiltrazioni di acqua di mare e per l’inquinamento. Un suo collega, Ahmad al Yacouby, ci avverte che la situazione è gravissima. «L’acqua a Gaza è un problema enorme e con molte facce», ci dice accogliendoci nel suo ufficio a Gaza city «c’è la questione dell’acqua da bere largamente insufficiente per 2 milioni di persone, poi quella dell’acqua filtrata non del tutto sicura, quella dei pozzi inquinati e naturalmente c’è la questione delle acque reflue non trattate legata alla poca energia elettrica disponibile e al funzionamento intermittente dei depuratori. 90 milioni di litri di acque non trattate o parzialmente trattate si riversano ogni giorno nel mare di Gaza. Senza dimenticare che 120.000 abitanti sono ancora scollegati dalla rete idrica pubblica e il 23 per cento della Striscia non è collegato alla rete fognaria».

L’anno scorso le Nazioni Unite avevano avvertito che Gaza potrebbe essere inabitabile entro il 2020. Questa condizione in realtà è già visibile in un territorio teatro di tre grandi offensive militari israeliane e di altre “minori” dal 2006 al 2014, con decine di migliaia di sfollati, “bloccato” da Israele ed Egitto, con livelli di disoccupazione tra i più elevati al mondo, senza risorse e con una popolazione che presto supererà i 2 milioni. «Il problema più immediato è l’acqua» ricorda Ahmad al Yacouby «al quale occorre dare una risposta rapida: servono almeno 200 milioni di metri cubi all’anno. Se teniamo conto che i 55 milioni di metri cubi di acqua della falda acquifera di fatto sono inutilizzabili, che l’acqua piovana non riusciamo per vari motivi a raccoglierla e che molti pozzi sono inquinati, è evidente che l’unica strada percorribile è quella della costruzione di più impianti di dissalazione e di dover trattare e purificare le acque reflue per utilizzarle in agricoltura o in altri settori».

Non è facile però raccogliere donazioni e finanziamenti per centinaia di milioni di dollari in un quadro politico complesso che vede la maggior parte dei Paesi occidentali boicottare il governo di Hamas che amministra Gaza. Inoltre il blocco israeliano all’ingresso di materiali che, sostiene Tel Aviv, potrebbero essere utilizzati dal movimento islamico a scopo militare, rende ardua la realizzazione di progetti minori ma ugualmente importanti per la popolazione civile. Secondo EWASH, una coalizione di ong e associazioni non governative, 30 progetti per l’acqua a Gaza sono a rischio per la carenza di attrezzature. Tareq Yazji non si fa illusioni. «L’acqua sarà sempre poca a Gaza – perché il governo (di Hamas), quello di Ramallah e gli occidentali promettono e non mantengono. Io so soltanto che oggi ho i soldi per comprare almeno l’acqua filtrata e che la mia famiglia può bere, quando non li avrò la mia famiglia morirà di sete».